EDITORIALE: I tre poteri fondamentali dello Stato
Confida pensoso il vecchio politico -auto dichiarantesi saggio (l’oracolo delfico è sorprendentemente attuale, come altre schegge di classicità)- di temere una repubblica giudiziaria, con tanti magistrati come ministri.
Opinione rispettabile come ogni altra che, a fronte della decadenza in corso, concorra a ragionare e far ragionare intorno al bene comune (cioè dei cittadini) e, verosimilmente più di altre, latrice altresì di un’esperienza diretta.
Sul piano delle istituzioni si potrebbe -in realtà si dovrebbe: ove l’approfondimento teorico preannuncerebbe forte e chiaro un dovere di intervenire a correggere lo squilibrio- ricordare che anche il nostro sistema, analogamente ad altri di civiltà europea, ha la sua sebbene ora scolorita matrice nella visione del Montesquieu per la quale i tre poteri fondamentali dello Stato si equilibrano a vicenda avendo ciascuno di essi una propria, nella pratica del funzionamento dello Stato, dedicazione di governo (nella accezione più ampia): il potere legislativo fa le leggi, il potere esecutivo le pratica e le fa eseguire, il potere giudiziario le fa rispettare giudicando i trasgressori.
E’ evidente, nel corpo statuale come in ogni altra umana organizzazione, che se l’equilibrio vien meno per, nella specie, incapacità a svolgere la funzione il vuoto creatosi a causa dell’inadempienza non rimane sospeso, ma tende ad essere riempito o attratto dalle forze operative che funzionano.
Quindi l’equilibrio si disallinea e la macchina lavora, per così dire, come riesce o può: in ogni caso male.
Nel nostro Paese, ove la tendenza alla divisione e al particolare derivano anche da un, allo stato, non ancora formatosi senso civico in genere, un legislatore debole e un governo (governi) a corrente alternata hanno offerto obiettive buone occasioni al terzo soggetto che è bensì a sua volta diviso al proprio interno come non si vorrebbe, ma attento e disponibile anche a debordare.
Che non è sua competenza.
Ma allora ci si deve chiedere, e a lor signori in primis, perché mai la politica non viene fatta e mantenuta nelle sue sedi più appropriate e perché le iniziative dei procuratori (e dei giudicanti) siano salutate con tanto entusiasmo quando sono rivolte contro gli avversari (politici). Che sono indeboliti o tolti di mezzo non con dinamiche democratiche, ma con (provvidenziali) interventi esterni.
Per quanto poi concerne l’attività delle Procure, ci sono anche magistrati che, depositari come sono di un potere molto esteso e incisivo, non sempre appaiono esercitarlo in modo da lasciare tranquillo il cittadino ancora un po’ utopista (ma senza un po’ di utopia o speranza verso il futuro, anche in dosi omeopatiche, la convivenza socio-politica diviene insopportabile e se ne vede, infatti, il riflusso) che si deve in ogni caso accontentare di quanto passa il convento: ce ne sono di buoni e di meno buoni, come in tutte le organizzazioni (solo che questa è basilare): la fiducia cresce non solo per via di tempi auspicabilmente contenuti, ma anche di decisioni che non sembrino, come talvolta sfortunatamente avviene, punti di vista e in quanto tali contraddetti o rovesciati da altri colleghi.
C’è però un’osservazione importante che i politici, pur tanto loquaci, fanno poco: in questo povero Paese dai molti ladri (a tutti i livelli salvo forse che fra i veri poveri diavoli) che hanno, lombrosianamente, scelto il furto come professione lucrosa (e giustamente quindi neanche se ne vergognano come a buona ragione rilevato da un magistrato di Mani pulite che a suo tempo scoprì, un poco, il coperchio del laido pentolone il quale ha comunque continuato imperterrito a sobbollire e, migliorando se mai nel metodo truffaldino, mai non cessa), cosa succederebbe se non ci fossero le Procure?
Anche lo stesso vecchio saggio quando era al governo, e con una solida maggioranza, fece qualcosa in merito all’italo vizietto o si distrasse trovandosi (peraltro in buona compagnia e prima e dopo) in altre faccende affaccendato?
La responsabilità è anzitutto personale, anche se in politica si mischia sovente con quelle altrui fino ad apparire figlia di nessuno.