L’APPROFONDIMENTO: Riflessione da Emmanuel Lévinas
È possibile comprendere una strage? E ancora: è possibile parlarne guardando la televisione, indecisi se optare per l’odio carico di paura o il perdono per qualcosa che non ci tocca personalmente?
No, non si può parlare di quel gesto, non si possono capire quelle morti o l’atto di giovani impazziti a cui il reale non offre altro che il martirio.
Si può, però, provare a comprendere cosa è mancato perché quei gesti, quell’inumano odiare che si ripete troppo spesso e in troppi luoghi, potessero prorompere improvvisi e letali.
Ci aiuta in questa analisi il pensiero di un filosofo che visse l’esperienza di un altro delirio assoluto: il nazismo, espressione del male, dell’incapacità dell’uomo di provare orrore di fronte all’abisso.
Ci avvaliamo del pensiero di Emmanuel Lévinas, perché le sue parole compongono la filosofia del sacrificio, nella quale donarsi all’altro prescinde dal male che questo può cagionarci e in cui l’unica condizione per essere Uomo è data dall’adesione al Bene, che ci elegge per primo “prima che io sia in grado di eleggerlo, cioè di accogliere la sua scelta”.
Lévinas ci regala tre parole, da cui ne consegue un’altra, la più difficile. Libertà, responsabilità e Volto. Quindi, amore, grazia donata all’umanità, il cui significato, anche dal punto di vista etimologico, è misterioso per la ragione.
Il gesto del male, l’odio che uccide, sono manifestazioni di un libertà impazzita, privata di un contenuto etico capace di domarla e indirizzarla verso l’accettazione dell’altro.
La società della libertà obbligatoria, in cui ogni scelta può esser giusta purché soddisfi la persona, si trova di fronte al desiderio di un limite, di un vincolo che garantisca la vita.
Questo desiderio riscoperto ci fa paura, forse più della morte vissuta tramite il colore di sangue ripreso dalle videocamere, ci indispettisce, percuotendo il nostro orgoglio di materia, di beni da scegliere e stili di vita da imitare. Eppure, ci ricorda della nostra libertà finita di cui parlava Lévinas, così intesa perché sottomessa alla responsabilità.
Libertà che ha un limite, un confine. Questo limite che sembra opprimere, circoscrivendo quello che potenzialmente appare uno spazio sconfinato dell’Io, caratterizza l’uomo e lo definisce. In questa sottomissione, l’uomo riscopre la sua identità, ricorda di non ridurre l’altro a mezzo da adattare alla sua interpretazione della realtà, rilancia la libertà impreziosendola con l’impegno, espressione dell’individualità e desiderio di Bene che incontra la realtà. Ci fa innamorare di nuovo della responsabilità, forte al punto da modificare la nostra percezione di ciò che siamo e facciamo, cambiando il nostro modo di vedere le cose: non attori liberi da cui scaturiscono scelte responsabili, ma uomini responsabili, votati al Bene anteriore all’essere, che si verificano nella libertà, intesa come risposta originale e individuale al richiamo dell’altro.
Lévinas ci ricorda che “l’unità dell’universo non è ciò che il mio sguardo abbraccia nella sua unità d’appercezione, ma ciò che da tutte le parti m’incombe, mi riguarda nei due sensi del termine, mi accusa, è mio affare”.
In questo senso, se tutto ciò che è realtà ha una connessione con me, le mie azioni e le mie scelte, “lo spazio appartiene al senso della mia responsabilità per l’Altro”.
Le bombe di Parigi ci interpellano e ci impongono di riflettere su ciò che è nostro compito fare.
Nell’imporsi di una negazione farneticante ciò che rimane è l’impegno di affermare un valore comune. Enzo Bianchi, due giorni dopo la strage, riportava alla memoria una poesia di Wystan Auden scritta durante la Seconda Guerra Mondiale: “Senza difesa il nostro mondo / giace sotto la notte attonito; / eppure, accesi ovunque, / ironici punti di luce / lampeggiano là dove i Giusti / si scambiano i loro messaggi: / oh, che io possa, composto come loro / d’Eros e di polvere, / assediato dalla medesima / negazione e disperazione, / mostrare una fiamma affermativa”.
La fiamma affermativa è la nostra responsabilità, utile per ricordarci che ogni risposta al male deve contenere il nostro desiderio di bene, che il dolore insensato non può essere lenito dalla vendetta, ma solo dalla capacità di continuare a dire sì al Volto di chi ci sta di fronte.
E quel Volto, oggi fa paura, ci sembra estraneo. Tuttavia quel Volto feroce è l’altro, quello a cui dobbiamo rispondere. Se prova ad ucciderci, dobbiamo difenderci, ma non possiamo ucciderlo, perché quel Volto è la nostra etica, ci tiene in vita, ci dona umanità.
“La relazione con il Volto si produce come bontà”, ricorda Lévinas, rivela un amore. Può esserci amore di fronte all’omicidio? Può esserci desiderio di relazione nei confronti di chi ci nega?
Sì, possiamo ancora provare desiderio e amore, perché agendo contro la negazione come esseri responsabili, come attori di Bene malgrado il male, ritroviamo il senso del nostro essere nella realtà.
Con questo sì inaudito noi possiamo ancora perdonare, perché il perdono è la linfa affinché la vita prosegua e non termini nella guerra totale, nell’odio annientante. Possiamo perdonare solo noi, perché “farsi sostituire per un atto morale, vuol dire rinunciare ad un atto morale”.
Le morti di Parigi aiutano a ricordare che la responsabilità viene prima della libertà. Insegnamento valido per chi uccide, perché non c’è salvezza se non nel Bene, e per chi rimane nel dolore, perché non c’è libertà senza perdono e non c’è perdono senza responsabilità.
Nella responsabilità c’è l’imperativo categorico che obbliga al perdono, ad una rinnovata accettazione di un Volto che ci fa paura. Nella libertà possiamo invece esprimere la nostra originalità, concretizzabile nei modi in cui guardiamo l’altro e la realtà.
Le stragi fanno paura, ci scandalizzano, ma ogni morte è uno scandalo e ogni vita che si spegne una perdita. Ci resta solo la possibilità di vivere quello scandalo come occasione per votarci al Bene, per vivere la responsabilità, la libertà e il Volto dell’altro come possibilità per amare.
E l’amore è un rischio, ma è pur vero che, facendo riferimento alla tradizione etimologica che fa risalire la parola in questione a μαο, quindi a desiderio, possiamo affermare che l’amore è prima di tutto un’aspirazione di bene, indispensabile per educarci all’altro, quindi alla responsabilità.
Responsabilità intesa come il culmine dell’amore, in cui l’alterità personale è pienamente realizzata nella relazione.
I fatti di Parigi ci hanno scosso, ma possono risultare preziosi per riscoprire significati perduti, per riassociare al Volto dell’altro il desiderio di relazione, di amore gratuito.
Non è facile non reagire a quel male, ma Levinas ci ricorda che “è a causa della condizione di ostaggio che nel mondo ci può essere pietà, compassione, perdono e prossimità”.
Forse oggi siamo ostaggi, vittime della violenza, ma esseri umani che perdonano, dotati di pietà, capaci di rispondere al male, alla sofferenza. Siamo impegnati in un’opera sisifea, “carico opprimente, ma disagio divino”.
Giuseppe Costanzo
Vidas, Milano