APOCRIFA – Sogno di una notte di mezza estate

Per i popoli del Nord la mezza estate corrisponde al solstizio, il giorno più lungo dell’anno in cui la notte si nasconde, mentre da noi si può più propriamente considerare i giorni di mezzo fra il solstizio d’estate e l’equinozio di settembre, quando l’estate termina dopo i temporali che seguono la festa dell’Assunta, ai Ferri di Agosto che, con traduzione a orecchio, è la memoria delle Feriae Augusti, in antico dal primo del mese, periodo di riposo dai lavori agricoli realizzati sotto la cappa plumbea della torrida afa di luglio.
Dopo l’ultimo volare delle rondini bianco nere dal breve richiamo, in alto o in basso a seconda del tempo, la notte inizia timida con la luce che cala pian piano mentre le nuvole si tingono a strisce di rosa, azzurro e violetto, al pari dei crinali oltre il lago, in direzione dell’acuto triangolare Monviso.
Il bosco intorno alla casa è fitto di querce, faggi e tigli che, là dove si intrecciano per lunghi tratti, fermano -filtrandone il calore in penombra- anche i raggi più pesanti del sole al primo meriggio.
Cicale in quantità friniscono ad alto volume dai rami delle conifere, deodara e cedri del libano, quasi che il prossimo rinfrescare, già avvertito, altro vigore porti al loro suono ininterrotto fin nella precedente calura.
A bassa altezza solcano l’aria, cui obliqui raggi hanno acceso dita dorate nel vapore e nel pulviscolo della campagna, singhiozzanti pipistrelli, agili e silenziosi nel volo.
Il crepuscolo -c’è qualche momento in cui le tinte del cielo, su in alto placidamente cangianti, non sono poi tanto diverse da quelle dell’alba- è accompagnato con reverente ammirazione e gratitudine dal cinguettare di innumeri uccelli e, in particolare, dal canto di lucidi merli dal becco giallo e ranciato.
Non c’è altro abitante del grande cielo che sappia, con la maestria dei merli, effondere musica nello spazio.
Sono, costoro, virtuosi solisti usi a posizioni elevate, cime di pini e magnolie, antenne e comignoli, i quali ingaggiano lunghi duetti e conversazioni canore gorgheggianti a più voci tali da prendere fin forma di cori orchestrati da invisibile e ignota, ma sapiente bacchetta.
Per nidificare preferiscono profonde cavità lapidee nelle masère ricoperte da cascate di edera, rifugi impenetrabili e sicuri nei quali entrano e dai quali escono con sonoro frullare di penne e di foglie in tutto simile al passaggio di un nanetto della foresta o di un elfo.
Con il primo buio brezze gentili scendono dai rilievi della Serra morenica e dai suoi pendii ammantati di castagni e betulle e disperdono adagio i vapori meridiani portando seco il fresco respiro di verdi ghiacciai non lungi.
Si dirigono esse, oltre il grande libocedro profumato d’incenso dal quadruplice tronco, verso il lago più in basso con la superficie quieta e smaltata e fremono sottovoce fra le possenti latifoglie, ricetto di molti nidi e rossicci scoiattoli curiosi.
Una coppia di variopinte e austere ghiandaie, per il loro rauco canto chiamate ghè, ha costruito in primavera un grande nido tronco conico intrecciando con sapienza rami secchi di rosmarino e lunghi steli di fieno: i piccoli pigolano con insistenza e hanno imparato il volo saltando e lanciandosi da un ramo all’altro, invisibili dal basso.
La luna piena sale da dietro i castagni e i vecchi portano per mano i piccoli nel mondo del sogno e parlano loro (Nonno racconta …) di fiabe nelle quali i bambini giocano con animaletti parlanti nel folto dei cespugli e fra saltellanti ruscelli di argentati pesci che guizzano, piccole trote iridate e scuri gattucci con i baffi neri.
Il mondo del sogno dei piccoli è l’incontro con il mistero della fantasia e della immaginazione, per secoli luogo privilegiato all’esperienza e all’incontro divino anche per gli adulti prima che il dottor Freud, da medico positivo, lo manomettesse cercando di defraudarlo dei suoi profondi privilegi ancestrali.
Quando è già buio segue pausa di assoluto silenzio, profondo come il pozzo in fondo al quale balugina l’acqua, rotto solo da un’improvvisa, ma breve ripresa canora delle cicale: a gola spiegata salutano a modo loro il nuovo giorno che si presenta all’accendersi della terza stella: poiché alla prima è ancora giorno precedente che sta per andare, alla seconda è passaggio e alla terza stella ecco che sboccia il nuovo.
Dopo subentrano i grilli, non più dai rami arborei come le cicale, ma dai cespugli e dagli oleandri profumati di vaniglia e di sole.
Sono essi custodi canori della notte d’estate.
Il plenilunio dall’alto accende di azzurro e di latte astrale la tenebra notturna luminosa e trasparente come profonda acqua marina.
Dormono le cime dei monti e le forre,
le rive e i torrenti,
le specie dei rettili quante nutre la nera terra,
le fiere degli altopiani e la famiglia delle api
e i mostri nelle profondità del tempestoso mare,
dormono gli stormi dalle larghe ali.
Dalla squadrata torre campanaria romanica, fra il bosco e il lago, esce in planata silente il gufo con ali di velluto, mentre stridono hu-u-ou, sempre un poco stonate, alcune civette da sotto le gronde più vecchie della piccola chiesa.
I verdi ranocchi che nelle vasche sul limitare dell’orto, la superficie coperta da ninfee, gracidano senza sosta diventano attenti e subitaneamente tacciono saltando al riparo delle amare salvie odorose e dell’elicriso d’argento quando l’ombra del gufo saetta sopra l’acqua iridescente.
Da qualche parte, fra le stoppie fradice di rugiada, singhiozza una upupa: tio, tio, tio, torototix, torotorolilix.
E un’altra, o forse è un usignolo, risponde da dietro al mancorrente ferrato del pozzo: tio tio tiotinx, tiotio tiotinx.
Il buio rischiarato del bosco risuona di movimenti felpati, sussurri e richiami sommessi:
tio tio tio tio tio tio tio tio, trioto trioto totobrix, torotorotorotorotix chiccabau, torotorotorotorolililix.
Raggi lunari gentili si proiettano da sopra e disegnano sui campi e sull’erba ombre mobili di lunghissimi rami e fantasmagorici disegni astratti, ma anche bozzetti teatrali di fate e di elfi.
Tecla sogna al lume de la luna e riposa tranquilla nel silenzio degli alberi che fra sé e sé bisbigliano suoni antichi come la terra.
Prima che spunti il carro del sole condotto da Aurora dalle rosee dita, ecco che si alza il vento e il mormorio del bosco diviene voce e parola che l’umano udito distratto e insensibile più non accoglie né comprende.
Il crepuscolo albeggiante sbianca la tenebra e la sua prima parola è il trillo di un merlo solista alto e sicuro nella quiete fra le fronde, un canto di sveglia che chiama al coro di inizio alla luce.
Così come in innumerevoli anni passati, come in un giorno della Creazione avvenne, all’inizio e per la prima volta, il diffondersi del medesimo trillo, annuncio cantato, come in quell’alba che celò pietosa la Resurrezione, maternamente velandola, alla grande città nemica dei profeti, indifferente e assassina.
Sogno di una notte di mezza estate.
Sì, ma vero.
Sir J. N. Paton, La lite di Oberon e Titania, 1849, olio su tela, Edimburgo, Galleria Nazionale Scozzese
Fonte: Wikipedia