APOCRIFA – Biglietto per l’al di là
La crioconservazione è uno stato che consente di conservare corpi umani preservandoli dalla decomposizione.
Esso si realizza per il tramite di speciali tecnologie che abbassano in modo graduale, ma rapido la temperatura corporea fino a raggiungere la temperatura dell’azoto liquido (-196 gradi centigradi) che è la sostanza nella quale il reperto viene poi conservato chiuso in un cilindro isolante atto a impedire la conduzione del calore e quindi il mantenimento nel tempo delle condizioni richieste.
Il processo di ibernazione, che contempla interventi fantascientifici collegati all’utilizzo di crioprotettori, sostanze ad hoc atte, ad esempio, a proteggere le cellule e il sangue dal congelamento dell’acqua contenuta che provocherebbe danni irreparabili alle pareti, e che è allo stato disponibile in tre istituti specializzati (negli USA e in Russia), presenta, senza entrare in particolari scientifici, la singolarità di dover iniziare (portando il corpo a -90° per evitare l’inizio della fine) entro trenta minuti dall’arresto cardiaco, mentre la nostra legge dispone un periodo di ventiquattro ore (accertamento della morte cerebrale) per poter disporre del cadavere.
In tal modo l’accesso all’ibernazione appare condizionato dal luogo del decesso: nel nostro Paese l’ibernazione o crioconservazione non è contemplata, ma questo è un aspetto tutt’al più logistico.
Nella sostanza le osservazioni sono altre.
Per l’uomo l’ibernazione è consentita (attualmente) solo post mortem e questo ne distingue lo status da quello dei campioni biologici (fra i quali anche organi di mammiferi, tessuti umani ed embrioni) che già sono stati crioconservati e quindi riportati in vita nell’ambito delle sperimentazioni scientifiche.
La distinzione non è da poco in quanto, per l’uomo, si tratterebbe non di ri-ammettere alla vita un vivo (anche se malato o già al lumicino) a suo tempo sottoposto a un processo di sospensione delle facoltà vitali per mezzo dell’ibernazione, ma di ri-dare la vita a un morto, cioè a ri-suscitarlo scientificamente.
Che è, viceversa, il sogno di quanti hanno già scelto di farsi ibernare e di coloro che sono ora in lista d’attesa per farlo a loro volta.
Costoro confidano nelle straordinarie capacità della scienza e considerando il suo incessante e rapido progresso nel mettere a punto tecnologie sempre più sofisticate il cui intento dichiarato è la preservazione dell’organismo vivente dall’invecchiamento e la sua guarigione dai danni procurati dalle malattie, si aspettano anche che la scienza pervenga, prima o poi, come promettono alcuni suoi sacerdoti, alla scoperta del principio della eternità (o quasi) fisica e, più o meno, del segreto della vita.
A parte il fatto che questa prospettiva è, sempre allo stato, ardita assai (infatti nelle sperimentazioni le cavie, insetti e anguille, non hanno ricevuto la vita, ma il ritorno in vita poiché erano stati ibernati comunque da vive: una sorta di estremo letargo indotto) non risulta che alcuno fra i candidati, già sotto azoto o in fila per andarci, abbia pensato più che a se stesso e alla propria vagheggiata resurrezione, piuttosto a chi e cosa troverebbe e come vivrebbe fra, per esempio, tre o quattrocento anni da oggi.
Solo ponendo mente a quanto accaduto negli ultimi cinquanta anni e senza considerare eventuali accelerazioni dei cambiamenti temporali cui abbiamo già assistito, potrebbe invero presentarsi al ritornante o reveniente uno scenario globalmente più simile all’inferno che al paradiso agognato.
Esseri umani dissimili, modificati e irriconoscibili, mezzi di comunicazioni diversi e non interpretabili, ambiente sconosciuto e a sua volta profondamente modificato in prospettive ignote (aria non più compatibile con i vecchi polmoni è solo un esempio), contesto socio-politico (pensate se avesse visto giusto, almeno un po’, S. Hawkins!) disciplinato e ferreamente condizionato dall’intelligenza artificiale…
Quale, dunque, il possibile o probabile destino del resuscitando?
Qualcuno (o qualcosa di automatico) lo dovrà pure estrarre dal suo cilindro di azoto liquido, ma gli si consentirebbe di mettersi liberamente in circolazione in modo autonomo, dato e non concesso che le funzioni, gli organi e i sensi di quattrocento anni prima glielo permettano o piuttosto non finirebbe, da cavia (se gli va bene), in qualche moderno istituto di ricerca avanzata?
O direttamente al museo (ammesso che ce ne siano ancora e non siano tutti digitali) o cos’altro per esso?
Una prospettiva di assoluta solitudine che sembra già l’elemento più caratterizzante l’inferno della nostra vita attuale (prospettiva sociologica) e, forse, della vita futura (prospettiva teologica).
Ma per non dovere sforzare troppo l’immaginazione: come si comporterebbero mai, oggi, le nostre istituzioni se ritornasse in vita (tralasciamo il come) un predecessore di qualche secolo passato?
Non solo la comunicazione interpersonale sarebbe una barriera (peraltro da affrontare forse con minore difficoltà rispetto a quella proiettabile nel futuro), ma altresì (e quantomeno), da un lato, la paura di contagio di malattie o pestilenze ignote e, dall’altro, la curiosità scientifica destinerebbero lo sfortunato, epigono reale di antecedenti ignoti che l’immaginazione nostra rispetto alla cruda realtà (sempre inferiore alle aspettative) farebbe migliori o più interessanti di lui, congiurerebbero a farlo diventare un soggetto (rectius: oggetto) da baraccone, sebbene in qualche modo ammantato dalla scienza.
A parte che, verosimilmente, sarebbe desso a risolvere ogni problema morendo in breve di tristezza e di solitudine e, non ultimo, per incapacità fisiologica a sopportare l’inquinamento cui noi ci siamo nel tempo mitridatizzati.
LMPD