L’APPROFONDIMENTO – Il soffio della natura 2
La prima parte di questo articolo è stata pubblicata sul precedente numero 137.
Tentiamo ora di tracciare i benefici psicofisici derivanti dallo sviluppo consapevole del contatto con la natura.
Il contatto con la natura influenza l’umore, attraverso semplici pratiche salutistiche quali camminare all’aria aperta di primo mattino col fruscio della brezza, il canto degli uccelli, il profumo di resina delle cortecce, abbracciare le piante attingendone l’energia, tuffarsi nei bagni di fieno. Sono tutte risorse che vengono elargite dalla natura a piene mani, senza timore di effetti collaterali.
“Se un tempo l’ambiente naturale circondava quello antropizzato, nelle città di oggi è lo spazio antropico che circonda la natura”, sostiene Gaia Camilla Belvedere¹. “I ritmi di vita degli esseri umani, un tempo legati alle stagioni, si trasformano, mentre alcuni bisogni rimangono imprescindibili, legati alla nostra natura, non solo biologica ma anche spirituale. L’importanza della natura è oggi riconosciuta su un piano esistenziale, pedagogico, psicologico, medico e spirituale”.
Il contatto con la natura investe la dinamica di tutto il sistema corporeo in termini di movimento, addestramento e assuefazione alla fatica, di dimensione della scoperta e dell‘avventura.
I gruppi umani ad alta intensita’ di contatto con la natura coltivano sensazioni di benessere, un vero e proprio antidoto “auto diretto” verso le tipiche malattie sociali di ansia e stress.
Nell’ambiente naturale i sensi sono coinvolti dalle relazioni con gli animali e le piante, provocando piacere e rilassamento e incrociando anche stimoli inattesi. Il contatto con la natura promuove altresì un miglior equilibrio corpo/mente, favorito dalla più ampia libertà di movimento rispetto all’ambiente antropizzato.
Si affinano anche la propriocettività e l’autocontrollo.
Nell’ambiente antropizzato si acuisce invece la “polarizzazione attenzionale”, tipicamente di fronte allo schermo del computer o dello smartphone, ai quali si demanda l’esperienza del reale.
Viene privilegiata la comunicazione digitale, mediata e simbolica a scapito del contatto diretto, sensibile e partecipato.
Lo stesso meccanismo dell’apprendimento per le nuove generazioni sembra manifestare oggi una deriva autoreferenziale, essendo come avvolto in una caligine solipsistica.
L’ancestralità di un bosco avvolge dunque un insieme di sensazioni: il respiro dell’aria frizzante, i fruscii, i riflussi del vento, simili a sciabordii di onde che s’infrangono sulla riva, con forte riflesso evocativo.
Il bosco non è solo un insieme di forme di vita, ma racchiude anche una visione simbolica: è un ricettacolo umbratile di Madre Terra che esercita sulla psiche un fascino, appunto, ancestrale e che esprime anche la potenza della natura.
Chi per esempio ha assistito alla terrificante visione di uno scoppio di fulmine o anche di una tromba d’aria, a distanza ravvicinata, conserva una traccia indelebile.
Il bosco era il regno della vita per molte culture antiche, sede di epifanie divine: ninfe, satiri, fauni, spiriti, dei. Ad esso era associato l’elemento equoreo, i ruscelli a loro volta simbolo di presenze divine.
Dal “tutto è pieno di dèi” di Talete alle visioni sciamaniche, alla concezione polinesiana dei mana, si compendia il pensiero del mondo premoderno, la religiosità cosmico/naturalistica e gli aspetti funzionali della Grande Madre, la Natura perpetuamente generante.
Si tratta di concezioni che si saldano, mutati i linguaggi, con i riflessi terapeutici delle discipline naturalistiche.
Per le odierne società urbanizzate deprivate del contatto profondo e rigenerante con la natura naturans di Baruch Spinoza.
L’ambiente verde offre una gamma estesa di stimoli ‘subliminari’ giocando, con rimandi e specchi, tra gli spazi protetti (la tana), quelli aperti (i prati) e quelli in ombra (le piante).
Il bosco ospita una varietà di forme di vita, in particolare di animali selvatici, espressione di una comunità sottostante della quale giova conoscere i comportamenti, le abitudini e i modi di vivere, ben consapevoli dei delicati equilibri da cui originano.
I popoli nativi hanno in genere un atteggiamento sacrale verso la natura, con un forte coinvolgimento tribale.
Alcune tribù amazzoniche, ad esempio, si riuniscono al risveglio dell’alba e condividono i sogni, concepiti come appartenenti all’intera collettività, mentre il singolo sognatore non è che il mezzo di cui l’inconscio collettivo si serve per parlare alla tribù.
I sogni condivisi vengono interpretati come una mappa per orientare le ore di veglia. Nella dimensione onirica si connettono ai loro antenati e al resto dell’universo.
È il sogno ad essere reale mentre è la loro vita di veglia a esprimere l’inganno. Tale concezione presenta somiglianze con le tradizioni degli Aborigeni australiani, entrambe accomunate dalla visione sacrale della natura, integrata nel cosmo.
In conclusione, diventa urgente ed essenziale superare la ‘schizofrenia esistenziale’ che vede da un lato l’homo sapiens sapiens portatore di successo nella sfida tecnologico/ambientale e dall’altro il medesimo homo vittima della sua cecità sapienziale, con una progressiva estraniazione da quella natura che ha visto i natali della sua (nostra) specie.
Federico Ferraris, ingegnere e ricercatore.
Note:
1 Esperta in Scienze naturali e Scienze della formazione primaria.