APOCRIFA – Alighieri, l’è el tò dì
Come qualche lettore avvertito forse intuisce, chi scrive emerge a mala pena dallo scorso millennio, quando anche fra compagni di scuola ci si chiamava con il cognome (il nome essendo riservato a rari e specifici casi di più stretta amicizia) e, a maggior ragione, per indicare letterati e artisti del passato si utilizzava il rispettivo cognome facendolo precedere dall’articolo determinativo.
L’uso, in atto particolarmente nel Nord Italia, fu poi progressivamente contaminato da altre abitudini fino ad approdare ai giorni nostri caratterizzato dal ricorso massivo al vezzo del solo nome e al tu appioppati direttamente fin a interlocutori che si incontrano per la prima o seconda volta.
Ma occupiamoci dell’Alighieri a proposito del quale si è oramai esaurita la girandola evocativa collegata ai settecento anni dalla dipartita e al Dantedì del 25 marzo (riconosciuto come data d’inizio del viaggio nella Commedia): il sommo Poeta è quindi tornato nella sua quiete che non è forse fuori luogo immaginare lungo spiagge e pinete (fino a quando ci sono state, beninteso) vagamente nebbiose e solitarie (morì in settembre) di quella stessa marina dove ‘l Po discende per aver pace co’ seguaci sui.
A proposito di un genio di tal fatta solo parva canamus e senz’ordine alcuno.
Una prima considerazione riguarda l’effige stereotipata, ispirata probabilmente al ritratto del Botticelli, che abbiamo incontrato fin dai banchi di scuola, sempre uguale e di profilo (glabro, i capelli inesistenti sotto la cuffia candida a sua volta coperta dal copricapo -cinto d’alloro- di panno rossastro come il vestito o mantello, il naso con la ben nota curvatura aquilina e le labbra sottili piegate pericolosamente verso il basso), che così poco corrisponde, nel suo insieme, alla descrizione lasciata dal Boccaccio nel suo Trattatello in laude di Dante Alighieri:
Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura e, poi che alla matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto, e era il suo andare grave e mansueto, d’onestissimi panni sempre vestito in quello abito che era alla sua maturità convenevole. Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso.
Da Orvieto hanno dato notizia dell’esistenza di un ritratto dantesco contro-corrente rispetto alla iconografia ufficiale e il quadro presenta infatti il Nostro vestito di scuro, con il capo coperto da un unico e più semplice berretto ornato di alloro, ma con barba e baffi neri.
Il labbro inferiore più prominente rispetto all’altro, peraltro presente di norma anche nella iconografia classica, segna l’espressione di contenuto (a parte la rappresentazione quasi feroce incisa dal Doré), ma evidente sdegno verso i numerosi terzi che il Poeta certo non mai dimenticava d’avere a gran dispitto.
Una seconda considerazione è poco più complessa e attiene al piano su cui orientarsi nella lettura dell’opera d’arte, Divina Commedia compresa: prenderla in quanto dotata di vita autonoma (e quindi in qualche modo scissa da chi l’ha prodotta) oppure mantenerne riferimenti di vita reale, per quanto se ne sa, con il suo creatore?
La domanda non si esaurisce certo nel caso specifico, ma riguarda praticamente ogni autore e dipende fortemente dallo spirito di colui che con l’autore colloquia leggendolo.
Personalmente (ma l’opinione è del tutto soggettiva) ritengo interessante avere contezza della vita e del contesto degli autori anche se poi scinderli dalle rispettive produzioni letterarie mi sembra meglio giacché, anzi, da un più stretto collegamento l’opera in sé generalmente non riceverebbe se non possibili contaminazioni critiche.
Mi sovviene, ma è solo un caso fra i tanti, del Leopardi che a Napoli scrive La ginestra e al contempo, essendone senza rimedio ghiotto, fa indigestione fatale con un chilo e mezzo di confetti.
Non c’è bisogno di risalire indietro nei secoli…
Va da sé, infatti, che ogni autore è comunque, prima di tutto, un essere umano al cui genio non difettano vizi, errori e fissazioni, ma l’opera d’arte è fatta per volare (se le ha) con le proprie ali e indipendentemente dal suo creatore.
In analogia vengono in mente le parole di Gibran a proposito di genitori e figli: Voi siete l’arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti.
Una volta che la freccia è scoccata essa vive di vita autonoma e la figura dell’arciere rimane sullo sfondo a far parte di un altro piano (storico).
Così possiamo tranquillamente trascurare, nel Nostro, situazioni spiritualmente ossimoriche come a esempio, da un lato, l’esaltazione e il trionfo dell’amore e, dall’altro, l’avversione mortale e l’astio inestinguibile – con una determinazione degna degli eroi omerici- verso nemici e portatori di torti oppure l’intronizzazione di Beatrice verso, per contro, la più assoluta indifferenza nei confronti della inesistente moglie Gemma (matrimonio combinato secondo l’uso) che pur gli diede due maschi e una femmina la quale andò monaca a Ravenna con il nome, neanche a farlo apposta, di Beatrice.
Le idee politiche e filosofiche di questo gigante, che ebbe genio e cultura eccezionali, sono tramontate, ma la Commedia è, a parte la funzione di matrice della lingua italiana, opera mirabile e affascinante anche se non sempre al medesimo livello come è naturale.
E, a prezzo di qualche iniziale fatica e mantenimento di un po’ di attenzione (senza la quale non si legge comunque altro se non un sms o un tweet), nemmeno così ostica da sfogliare come molti paventano.
Dipende, al pari di ogni altra cosa, in gran parte da come la si incontra o la si avvicina o, ancor prima, la si fa leggere a scuola e dalla capacità dell’insegnante, ma questo è un altro, vecchio, discorso.
LMPD