APOCRIFA – Futuro a rischio
Il futuro è a rischio per definizione.
Non è necessario conoscere qualche riga del Vangelo (Stulte, hac nocte animam tuam repetunt a te) per rendersene conto: sarebbe già sufficiente considerare con un po’ di maggior attenzione e obiettività la propria vita traendone dal suo percorso, a posteriori noto e conoscibile, esperienza di quante volte le cose si siano svolte diversamente (in bene e in male, non fa differenza) dal previsto e, del pari, di quanti e quali pensieri e accadimenti, lì per lì talora anche poco se non punto avvertiti, abbiano in realtà cambiato, modificato, rallentato, accelerato o addirittura fermato il corso di certi rivoli e componenti della propria esistenza.
Ognuno poi che a questo ponga mente, in rapporto alla propria personale spiritualità, tende ad attribuire riferimenti i quali, se anche non danno risposte certe, inquadrano tuttavia un certo tipo di alveo nel quale il soggetto ritiene possibile il collegamento: Dio, destino, fortuna, caso etc.
L’uomo moderno è consapevole dei grandi e (attualizzandone, per così dire, la visione a priori) quasi spropositati progressi compiuti nel giro di una manciata di decenni dalle scienze -dall’aratro tirato dai buoi alle missioni spaziali e dalla vita in balia di una febbre ignota ai trapianti- e a causa di tale consapevolezza, la quale lo rende progressivamente più sicuro, vale a dire gli riduce il rischio in cui è immersa la vita (o, in altre parole, gli conferisce il senso della prevedibilità e programmabilità delle cose), finisce per fargli perdere l’orientamento morale.
La sintesi di questo moderno scenario, cui molti non pensano forse neanche più dandolo per scontato o acquisito o comunque sempre in necessario miglioramento (come se all’evoluzione non potesse succedere l’involuzione), è stata nell’arte magistralmente descritta da M. Bulgakov nelle prime pagine di Il maestro e Margherita tramite l’inquietante dialogo che si svolge a Mosca, in una calda sera d’estate sotto i tigli del giardino degli Stagni dei Patriarchi, fra Michaìl A. Berlioz, il cittadino presidente della associazione letteraria Massolit, e il misterioso e importuno straniero professor Woland, esperto di magia.
… per dirigere bisogna avere un piano preciso e per un ragionevole periodo di tempo … in che modo l’uomo potrebbe dirigere se oltre a non essere in grado di predisporre un piano qualsiasi neppure per un tempo ridicolmente corto … non è nemmeno sicuro del proprio domani.
Le disarmanti e non aggirabili parole di Woland, puntualmente verificate peraltro nelle molteplici vicende registrate dalle cronache e storie vicine e lontane, sono utili anche per dare un senso non tanto ai risultati (parola di eccessiva valenza) quanto agli accadimenti della Conferenza delle Nazioni Unite COP26 sui cambiamenti climatici che si è svolta a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre scorso.
In Scozia poco meno di 200 Paesi si sono presentati -con qualche assenza non di poco conto come quella di Russia e Cina che, con l’India, sono i principali inquinatori dell’orbe terracqueo- per dire ciascuno la loro e, non ultimo, in tanti per battere cassa atteso che il periodo che ci separa dall’obiettivo (limitazione a 1,5°) finisce, né potrebbe essere altrimenti, in un lungo conto di ingenti spese (stimate in circa cento miliardi di dollari all’anno a carico dei Paesi sviluppati) necessarie a realizzare la transizione energetica e (quindi) ambientale.
Spese che neanche si dovrebbe pensare di risparmiare chiudendosi nel proprio (fragile) guscio all’insegna del sacro egoismo poiché le conseguenze geo-sociali indotte dai cambiamenti climatici le chiederebbero in ogni caso ad altro titolo: di riparazione (se e quando possibile) dei disastri naturali via via progressivamente più numerosi.
Il mondo si trova quindi in una tagliola costituita, da un lato, dalle conseguenze del riscaldamento della terra sulla fisiologia della natura, causato dalle attività umane (l’Antropocene di cui scriveva nel precedente numero di questa rivista il professore Davide Caramella), e, dall’altro, dal grado di consapevolezza e disponibilità a operare in mitigazione dei Paesi in cui si scompongono i sempre più numerosi abitanti della terra, costretti in ogni caso a convivere gomito a gomito anche detestandosi.
Paesi rappresentati da uomini i quali, oltre al fatto di avere diverse sensibilità e programmi (Trump, per dirne una, intendeva ritirare gli USA dall’Accordo di Parigi) e a parte la condizione di singola incertezza naturale già sottolineata da Woland, sono comunque pesantemente condizionati anche dalle rispettive politiche interne.
Si vedrà quindi prossimamente se e come seguiranno comportamenti coerenti o meno con la maggior consapevolezza circa i rischi devastanti del riscaldamento che sembra finalmente affermarsi, sebbene a grandi macchie, a livello mondiale.
Per ora si prenda atto dell’osservazione conclusiva ufficiale pubblicata sul sito della Conferenza:
“COP26 KEEPS 1.5C ALIVE AND FINALISES PARIS AGREEMENT”
Detta dagli inventori dell’understatement fa intuire che la strada da percorrere è in ogni caso ancora lunga assai.
LMPD