HomeDialogandoNewsletterApocrifaAPOCRIFA – Libertà va cercando…

APOCRIFA – Libertà va cercando…

ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta: è il famoso verso 71 del primo Canto della seconda parte della Divina Commedia, Purgatorio, con il quale Virgilio presenta Dante al severo custode del luogo, Marco Porcio Catone Uticense.

Catone è un personaggio che brilla solitario nella miseria della solita guerra civile fra fazioni, la quale porta, nel I secolo a. C., alla definitiva dissoluzione della repubblica di Roma e all’inizio del principato che ben presto si trasformerà in irreversibile tirannide fino alla dissoluzione dell’impero.

Egli era uno stoico di fede consapevolmente repubblicana il quale, dopo l’ultima battaglia (Farsalo) in cui Cesare annientò Pompeo e quella di Tapso che spianò a Cesare la via per Utica, poco distante da Cartagine, in cui erasi asserragliato con le ultime forze della repubblica, non stimò più degna la vita sotto il dictator che aveva distrutto la res publica di Roma così avviandosi senza più ostacoli ad assumere il potere assoluto e si tolse la vita dopo avere trascorso la notte a leggere il Fedone, dialogo platonico sull’immortalità dell’anima.

E contemporaneamente dando un grande dispiacere a Cesare il quale, a sentire Plutarco, ben avrebbe desiderato mostrare urbi et orbi la propria proverbiale magnanimità facendogli grazia della vita.

Ora che aveva perduto gli unghielli.

A riprova, se mai ce ne fosse bisogno, delle ambiguità semantico-psicologiche e dell’uso strumentale che, da che mondo è mondo, nelle contese politiche si fa delle attribuzioni nominali è da ricordare che Giulio Cesare, lanciato consapevolmente verso la tirannide, era però assurto a difensore della fazione dei populares contro gli optimates e che ciascuna delle due parti sosteneva di essere contro l’altra a legittima e doverosa difesa e protezione della res publica: con il risultato che la maggioranza dei cittadini romani non schierati finì per perdere fiducia nelle istituzioni contese e accettò poi la tirannide come il minore dei mali (la Storia non insegna niente, se non agli innocui professori, ma tende implacabile a ripetersi).

Il fatto che Dante, peraltro conforme in toto alla morale cristiana, abbia scelto un pagano e per di più suicida (per il quale sarebbe stata invero già pronta la apposita contorta selva nel settimo cerchio infernale) per cotanto ufficio, nientemeno la custodia del Purgatorio, manda e rischiara di luce in particolare avvincente il fondamentale e non negoziabile (per usare un termine attuale) valore attribuito e da continuare ad attribuire alla libertà: che rappresenta il più importante e inalienabile principio morale dell’uomo in prospettiva sia divina sia terrena secondo il Poeta e i suoi posteri.

Ora, la libertà in prospettiva religiosa-politica-civile è un concetto senz’altro recente, nella storia della umana civilizzazione, e perimetrato -peraltro con significative differenze in tema, per esempio, di libertà individuali e collettive e di rapporti con le decisioni della maggioranza- dal pensiero filosofico (Locke, Rousseau, Montesquieu, Constant, de Tocqueville), mentre non è stata fino ai tempi più recenti considerata dai sistemi politici, compresi quelli che formalmente facevano le mosse d’ispirarvisi (Liberté, E’galité, Fraternité), affossati come furono dalla dittatura giacobina o dalla tirannide napoleonica.

La libertà -a parte quella teologica dono del Signore come condizione essenziale del rapporto divino, in assenza della quale l’Altissimo non sarebbe dissimile da un qualsiasi despota terricolo- è quindi una faticosa scoperta e conquista moderna, molto moderna, e appannaggio delle c. d. democrazie liberali che bilanciano (o cercano di bilanciare al meglio) per il tramite di un formale-sostanziale-basilare atto di Costituzione i diritti e libertà individuali con i collettivi (come le libere e pluralistiche elezioni), maggioranze e minoranze (è noto il tema scivoloso della ‘dittatura della maggioranza’), divisioni e reciproca indipendenza dei poteri fondamentali (legislativo, governativo, giudiziario) etc.

Il flusso della libertà, per costante esperienza oltre che per logica teorica, scorre in direzione dei sistemi democratici, con i quali, nella reciproca diversità concettuale, ha in comune anche diversi spazi che si sovrappongono, ma il presidio funzionale alla custodia della libertà da parte della democrazia risente in modo diretto e in ogni caso rilevante delle reali e non solo dichiarate caratteristiche organizzative e operative (punti di forza e/o di debolezza) in capo alla struttura democratica o sistema di riferimento.

Ognuno sa quanto siano scarsi, nel passato come nel presente, gli Stati disposti a rinunciare di apporre, sul proprio magliaro biglietto da visita, l’attributo della ‘democrazia’ indipendentemente dalla sua effettiva esistenza nella realtà politico-sociale del proprio ordinamento: la professata democraticità corrisponde a una terminologia di significato e interpretazione tanto estensibile da poter coprire con una appariscente gualdrappa qualsivoglia animale.

Destino ingrato, questo riservato da non pochi politici e politicanti di potere alla democrazia, che non è poi tanto diverso da un altro termine, di utilizzo in pratica grottescamente obbligatorio, usato a proposito e a sproposito: repubblica.

Un prototipo illuminante, solo per esempio fra tanti, è costituito dalla Corea del Nord: Repubblica democratica popolare di Corea.

Ai tempi non lontani e indimenticabili della Cortina di ferro, per esempio, repubbliche erano tutti gli Stati di sovietica struttura organizzativa e l’espressione ‘maggioranza bulgara’ era pacificamente riferibile non certo a una maggioranza come intesa in una qualsiasi democrazia liberale, che contempla la contemporanea presenza di una minoranza di diverso avviso, quanto piuttosto a una granitica unanimità senza alternative indotta da processi decisionali a monte, secondo l’abusata espressione di moda al tempo.

Nondimeno il legante socio politico, composto da ipocrisia e menzogna, che ancora si tende ad attribuire sul piano sia nazionale sia internazionale alle parole -anche alle più stravolte e svuotate- nei fatti e nei comportamenti, sino all’assassinio del loro senso comune, fa sì che ancora oggi sopravviva una certa qual attenzione di facciata per taluni principi democratici, peraltro ampiamente calpestati e pretermessi con l’inganno e la violenza, onde -a esempio- si preferisce nella prassi cercare di far apparire il proprio potere come invece legittimato in autonomia e libertà dal popolo per il tramite di elezioni -secondo i casi- fasulle, artefatte, pilotate: quasi sempre con risultati che richiamano la sopra ricordata maggioranza bulgara.

Non dissimili si presentano i c. d. referendum dei Russi velocemente messi a punto per mettere un sigillo di pretesa proprietà, sebbene farsesco, sui territori contesi con l’aggressione all’Ucraina e il proposito non è di poco conto: sono, infatti, territori appartenenti a un confinante libero e sovrano Paese occupati con la forza della guerra, mentre a seguito dei referendum la volontà popolare (comprendente anche i voti dei morti) che l’aggressore dichiara attribuirebbe, secondo lui, un titolo (all’apparenza) diverso da quello attuale della rapina a mano armata.

Va da sé che il diritto internazionale, ancorché sfortunatamente inetto poiché privo di valida protezione (dovrebbe essere prestata dalle Nazioni Unite, a mente dell’articolo 42 della Carta, ma nel Consiglio di Sicurezza vige il diritto di veto), non riconosce, e ci vuol poco a intuirne il motivo, tale forma di finta e strumentale legittimazione che darebbe ufficialmente e worldwide cittadinanza all’aureo principio risalente a Plauto e Hobbes dell’homo homini lupus applicato però non più ai singoli individui quanto agli Stati, i quali già si incanagliscono abbastanza, e anche troppo, da sé senza bisogno di ulteriori spunti o ispirazioni.

LMPD

 

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