L’APPROFONDIMENTO – Bit e battiti
Colloquio fra un avvocato (Giuseppe Mazzotta) e un medico (Davide Caramella)
GM – Mi può descrivere brevemente la sua attività professionale?
DC – Sono un medico radiologo universitario: durante tutta la mia vita professionale ho unito attività clinica, di ricerca e di insegnamento. Quando sono andato in pensione nell’Aprile 2021, ero professore ordinario e direttore della scuola di specializzazione in radiodiagnostica dell’Università di Pisa.
GM – Un medico stabilisce una forma di solidarietà verso il paziente rispetto alle sofferenze e alle necessità che hanno determinato l’instaurarsi del rapporto terapeutico; d’altra parte è anche vero che la medicina che lei, professore, ha per tanti anni praticato e insegnato, laddove fornisce immagini biomediche da utilizzare a scopo diagnostico e, in alcuni casi, terapeutico, come la radiografia, la tomografia computerizzata, l’ecografia, la risonanza magnetica e altro ancora, restituisce dell’uomo e del paziente un’immagine, appunto, una rappresentazione che sembrerebbe discostarsi dalla fisicità del paziente stesso, quasi scarnificandolo. Tutto questo avvicina forse il medico alla malattia, ma non rischia di allontanarlo dal malato?
DC – La medicina è una professione di cura: rientra quindi tra le attività umane caratterizzate dall’accudimento, dal provvedere al soddisfacimento di bisogni che percepiamo esistere nelle persone intorno a noi.
La forma più potente del prendersi cura, che è profondamente iscritta nella nostra storia evoluzionistica, è l’accudimento parentale: su questo si modellano le varie attività solidali che svolgiamo nella vita privata e in quella lavorativa.
La professione del medico (parola legata al verbo latino medeor che significa “aiuto, guarisco”) è certamente basata sull’aspetto solidale del prendersi cura, ma è anche basata sull’osservazione scientifica della realtà biologica del paziente. Non a caso in inglese il medico è un physician (da τὰ φυσικά ovvero “le cose naturali”).
Da sempre, quindi, la medicina vede nel paziente un soggetto da curare e al tempo stesso da osservare con finalità di studio per l’avanzamento delle conoscenze. Questo ha imposto al medico la ricerca di un difficile equilibrio tra la freddezza dell’analisi razionale e il calore empatico della cura.
Si tratta di un equilibrio particolarmente arduo da raggiungere in radiologia, poiché questa è una disciplina medica figlia della tecnologia che produce immagini del corpo del paziente piuttosto che un rimedio alle sue sofferenze (con l’unica eccezione della radiologia interventistica, che può essere anche terapeutica).
Il paziente che affronta esami radiologici, vive con comprensibile inquietudine il momento dell’acquisizione delle immagini, quando si trova in balìa di macchine all’apparenza minacciose, e successivamente il momento della diagnosi basata su quelle immagini misteriose che sono decifrabili solo dallo specialista.
In questo contesto, il dovere del radiologo è quello di coniugare “bit e battiti”, ovvero la tecnologia più fredda e inflessibile con la doppia vulnerabilità somatica e psicologica del paziente.
GM – La vulnerabilità che scorre come un fiume carsico, salvo emergere alla superficie della condizione del paziente nel quale diventa per tutti noi il presagio consapevole della nostra finitezza. Un medico che si sforza di “coniugare i bit con i battiti”, come lei ci ha appena detto, nel suo ordinario lavoro quotidiano in certo modo trasfigura l’atto della cura traducendolo in un’esperienza condivisa. Certo, resta l’impegno volto a fondere i linguaggi, del paziente e del medico, che è proprio ciò che permette questa condivisione. Come si realizza questo? Con un paradosso potremmo dire che Google Translate non ci aiuta e non perché serve a tradurre gli idiomi e non i linguaggi ma soprattutto perché ha le limitazioni di qualunque strumento che sia programmato indistintamente per una comunità indifferenziata di soggetti. Quindi? Può provare ad aiutarci lei?
DC – Seguendo lo spunto che mi ha dato, ho chiesto a Google Translate di trovare l’equivalente inglese della locuzione italiana “bit e battiti”.
Il risultato è straordinario perché in “bits and beats”, all’allitterazione che abbiamo anche in italiano, si aggiunge una quasi perfetta omofonia. Le due vocali di “bits” e “beats” si distinguono solo per la loro lunghezza: breve e secca è la vocale di “bits”, lunga e melodiosa quella di “beats”. In questo caso quindi la traduzione inglese sembra sottolineare la dicotomia tra l’asciutto rigore della tecnologia e la capacità squisitamente umana di farsi carico della vulnerabilità del paziente.
In radiologia, la fredda comunicazione della diagnosi risulta del tutto insufficiente in quei casi dove il fiume carsico della vulnerabilità del paziente emerge alla superficie, come quando le immagini mediche ci portano a formulare diagnosi gravi o quando una diagnosi può evocare fantasie dolorose per il paziente.
In questi casi il radiologo deve ricordare di essere innanzitutto medico e trovare il tempo per una comunicazione empatica con il paziente.
GM – Veniamo all’insegnamento e proviamo a proporre, ribaltandole tra i destinatari, tre domande in una: come vedono i suoi studenti l’insegnamento? E cosa significa, secondo lei, l’apprendimento? È un modo di ricomporre un Giano Bifronte con un volto che guarda al passato ed uno al futuro o si riesce in questo rapporto a trasmettere anche un modo di guardare l’essere umano, specie quando affetto dalle patologie che le immagini rappresentano?
DC – L’insegnamento è un’attività relazionale nella quale tutti i soggetti coinvolti hanno un’esperienza che può essere positiva o negativa in funzione di una serie di variabili.
Per gli studenti, la variabile che fa premio su tutte è l’impegno che il docente dimostra nel rendere accessibile la materia dando valore aggiunto rispetto alle altre sorgenti di sapere disponibili (manuali, articoli, diapositive, Internet). In altre parole: il discente apprezza un docente appassionato, che spiega con sufficiente dettaglio e non lascia nessuno indietro.
Da parte sua, anche il docente apprezza l’impegno che percepisce negli studenti, che vorrebbe reattivi, critici e non troppo utilitaristi nello studio.
Come si vede si tratta di una relazione dove entrambe le parti cercano di ottimizzare la qualità dello scambio, seguendo la regola del tit for tat (che si può tradurre con “pan per focaccia”), ampiamente diffusa in etologia. Secondo questa regola il docente inizia dimostrando impegno e viene ricambiato dagli studenti con un atteggiamento simile. Se nel corso della relazione didattica una delle due parti viene meno alle aspettative che la relazione ha generato, scatta la ritorsione e l’insegnamento/apprendimento diventa disfunzionale.
Per quanto riguarda l’aspetto bifronte dell’insegnamento in medicina, questo si dovrebbe concretizzare da un lato nello studio evoluzionistico della lunghissima storia pregressa dei nostri antenati sulla Terra e dall’altro nell’analisi della vita presente nella quale le interazioni tra uomo e ambiente risultano sempre più critiche.
Quando l’insegnamento viene impostato secondo questo modello bifronte, il discente viene stimolato a prendere in considerazione le cause remote che sono alla base dell’attuale stato di salute o di malattia di un paziente e a riconoscere i segni (anche di imaging) che consentono di individuare patologie in fase precoce.
GM – Qui le faccio una domanda che contiene una piccola provocazione, ma che sicuramente incontra la curiosità di chi avrà l’amabilità di leggerci: le è mai capitato di avere nell’incontro con uno studente la percezione che lo stesso stesse sbagliando nella sua scelta o, al contrario, che non fosse sufficientemente convinto del suo talento? Si tratta proprio di una domanda su questo: come potenziali pazienti auspichiamo che l’università orienti e valorizzi il talento dei medici che incontreremo quando ve ne sarà la necessità ma nella sua esperienza questo come è avvenuto, ammesso che sia stato possibile farlo?
DC – L’attuale accesso al corso di studio di medicina e chirurgia è a numero programmato ed è regolato da un concorso nazionale che mira a valutare l’attitudine allo studio dei ragazzi e il loro grado di conoscenza di alcune materie propedeutiche, ma che non valorizza in alcun modo la predisposizione dei candidati a svolgere con passione una professione difficile come quella del medico.
Anche l’accesso alle scuole di specializzazione è a numero programmato; il concorso nazionale di ammissione mira a valutare le conoscenze apprese durante il corso di laurea di medicina e chirurgia, ma non riesce sempre a soddisfare le preferenze dei giovani medici per quanto riguarda la scelta della specializzazione.
Questa duplice distorsione fa sì che alcuni ottimi studenti di scuola secondaria superiore finiscano per fare medicina senza averne la vocazione (perché sono stimolati solamente dalla sfida di superare un esame considerato difficile) e che alcuni medici che avrebbero voluto fare una determinata specializzazione si trovino a doverne fare un’altra di minor gradimento.
Nel corso della mia vita professionale mi è capitato di indirizzare medici entrati in radiologia come ripiego verso le specializzazioni che sognavano originariamente di fare e – viceversa – di accogliere in radiologia medici che avevano iniziato senza entusiasmo percorsi di specializzazione meno graditi.
Credo infatti che un obiettivo fondamentale della medicina universitaria sia quello di favorire il raggiungimento della felicità professionale dei giovani che si formano nelle nostre aule e nei nostri reparti, anche perché i medici che sono stati messi in grado di realizzare pienamente la loro vocazione sono – molto spesso – anche i più bravi.
Giuseppe Mazzotta e Davide Caramella
(La seconda e ultima parte del colloquio sarà pubblicata nel prossimo numero, n. 201)