APOCRIFA – Imparare a vivere
Non ci sono, fra gli uomini, esseri uguali e così, allo stesso modo, non c’è uguaglianza fra le loro vite che sono, rispetto allo spazio e al tempo, non troppo diverse o più lunghe di un semplice battito d’ali di farfalla.
Ma è probabile che tutte, più o meno consciamente oltre che con maggiori o minori dettagli, corrispondano all’osservazione che è titolo dell’autobiografia recente di stampa di un noto, colto giornalista e scrittore: La vita s’impara.
Qualcuno fra i nostri antichi, coloro che ci hanno trasmesso esperienze e cultura, forse un’anima ancor più greca che latina, chioserebbe anche che quanto poi ci si avvede di avere imparato lungo il corso degli anni, pochi o tanti o moltissimi, è conoscenza sfortunatamente quasi mai trasmissibile alla generazione che segue se non per sommi capi (ma allora è in prospettiva teorica e non più esperienziale).
Similmente, per dirne una, avveniva agli equipaggi di quelle navi ioniche che dalle coste occidentali dell’Asia risalivano il Mediterraneo verso la Corsica e nel Tirreno imparavano nuove modalità di combattimento e di sopravvivenza sul mare misurandosi e scontrandosi con i crudeli autoctoni.
Ma poi morivano lontani senza tornare e i loro figli erano costretti a imparare di nuovo impossibilitati ad attingere in qualche misura alla loro esperienza.
E c’è poi, in ogni caso e per tutte le vite e qualsivoglia sia stato il loro orientamento, il passaggio, singolo e ineludibile, marcato dal rapporto (o dalla mancanza del rapporto) con Dio.
Nessuno -grande o piccolo, colto o ignorante- è in grado di avere certezze intorno a ciò che è il dopo morte, ma solo speranze.
E le speranze dell’ateo, o di chi si dichiara tale, non differiscono, nella loro sostanza umana, da quelle di colui che crede in qualcosa o Qualcuno.
Esse sono semplicemente rovesciate: “L’ateo ha una consolazione: nulla lo attende dopo l’ultimo anelito, il mortale sospiro. La spoglia immemore non avrà né premi né punizioni, brucerà diffondendo attraverso il comignolo gli elementi di base che l’hanno tenuta in piedi per un po’ di anni […]”.
È evidente che, non sapendosi e non conoscendosi in realtà nulla, questa consolazione è identica sebbene di opposto segno alla consolazione di colui che crede.
Le risposte dell’uomo circa Dio sono in effetti da sempre due, positiva o negativa, e qui è vero che non esiste altra possibilità di risposta: proprio non ce ne è una terza.
L’uomo cui si può fare riferimento per la risposta negativa è un gigante del pensiero, il filosofo greco Epicuro nato nell’isola di Samo a metà del quarto secolo e morto una settantina di anni più tardi ad Atene ove, a circa quaranta anni di età, aveva fondato la sua scuola.
Scuola domestica, annessa all’abitazione, e dotata di un giardino (donde anche il nome cortese di ‘filosofia del giardino’ per indicare la dottrina del maestro), alla quale erano ammesse le donne e gli schiavi giacché il filosofo riteneva tutti gli esseri uguali sotto il profilo del valore umano e morale.
Epicuro -il cui nome significa soccorritore, uno degli epiteti del dio Apollo- oltre a essere studioso della natura (atomi e vuoto) intendeva soccorrere i propri simili aiutandoli a liberarsi da ansie e paure e così, per quanto concerne gli dèi, negando la realtà dell’Olimpo (Ed è empio non chi nega gli dèi venerati dai più, ma chi ascrive agli dèi le opinioni dei più) come due secoli prima Senofane (Omero ed Esiodo hanno attribuito agli dei tutto quello che per gli uomini è oggetto di vergogna e di biasimo: rubare, fare adulterio e ingannarsi…), li considerava disinteressati alle vicende umane a causa, principalmente, della esistenza del male.
Mentre per la morte quando noi ci siamo ella non c’è, quando lei c’è noi non ci siamo e per guida alla vita quotidiana indicava il criterio della sobrietà onde soddisfare i bisogni naturali e necessari, cioè i fondamentali (e non i superflui che procurano ansia e inappagamento) e avere felicità (edoné) coltivando inoltre l’amicizia e la solidarietà oltre alla filosofia poiché per nessuno, non è ancora il momento o non è più il momento di acquistare la salute dell’anima.
L’uomo cui si fa riferimento per la risposta positiva è un profeta, ultimo nella storia ebraica, che a differenza di Epicuro nato nella Ionia felix culla di numerose e celebri intelligenze filosofiche, è originario di una oscura Galilea poco apprezzata dai Giudei di Gerusalemme a motivo della sua contiguità con territori pagani e la Via del Mare: il suo nome Yĕhošūa corrisponde a salvezza, Dio salva.
Un uomo di cui non si sa nulla fino a una breve apparizione pubblica culminata in una tragica morte di repressione religiosa che nondimeno, con l’esempio e l’insegnamento itinerante, ha cambiato la prospettiva della vita degli uomini, oltre che la numerazione degli anni della storia.
Esortava a riflettere su se stessi (conversione: un passo esplicitamente più avanti del Conosci te stesso) e chiamava a seguire i propri passi che, da buon maestro, sempre faceva precedere a quelli dei discepoli attraverso porte strette e nonostante avversità e buio ognora incombente.
Epicuro, persuaso non ci fossero altre alternative, additava la mèta terrena della felicità (edoné, da cui edonismo e pensare quanto i posteri ne abbiano travisato il pensiero) e aiutava a non avere paura né della morte né degli dèi vendicativi, mentre Gesù additava una mèta ben oltre alla vita terricola, cui riconosceva la pena quotidiana, esortando a sua volta a non avere paura perché la morte, per quanto valle oscura, è un passaggio verso Qualcuno.
Epicuro si arrestava davanti all’evidenza del male, traendone motivo per comprendere l’indifferenza degli dèi, mentre Gesù, realisticamente conscio del male, confidava nella validità di più antiche parole: Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde. Concetto ripreso più tardi dal veggente di Patmos nella Apocalisse.
Il profeta e maestro galileo rendeva conto, svelandone taluni lineamenti e conducendo il cuore degli uomini sull’orlo del mistero, di un Dio persona ben diverso da quello dei filosofi (da Senofane in poi: essere immobile nella sua perfezione, motore del mondo e separato dalle miserie umane) e anche in parte da quello stesso ebraico.
Su di lui il primo vangelo, di Marco, non cessa di domandarsi con immutato stupore: Chi è questo uomo che insegna come mai nessun altro ha insegnato, che ha autorità sugli spiriti, che guarisce con pietà i malati reietti (la malattia era considerata punizione di Dio) e cerca e consola gli ultimi della terra?
Gesù è stato poi tanto rapidamente assorbito nella teologia da fare passare inosservata la sua umana filosofia che è bensì ancorata in toto a una metafisica di disarmante e quasi scandalosa semplicità per i sapienti adusi a scrivere in argomento volumi su volumi (e non per nulla ha avvertito che al mistero di Dio non ci si avvicina con la sapienza umana), ma nondimeno estremamente ricca di contenuti di valore universale.
Maestro che non ha lasciata scritta una riga e del quale non si conoscono neanche le originali parole, poi trasmesse nella tradizione orale e scritta da parte di taluni fra coloro che gli erano stati vicini, pur nella semplicità sintetica per l’uso sistematico della parabola, comprensibile da chiunque desideri ascoltare, ha fissato principi di filosofia dell’uomo validi in ogni tempo e luogo. E di sconcertante attualità.
L’uguaglianza fra tutti, la separazione di Cesare da Dio, dello stato dalla religione (impensabile in un ordinamento rigidamente teocratico come Israele), la promozione della donna da cosa a persona con parità di diritti con l’uomo (che aveva il potere unilaterale di divorzio), la rinuncia deliberata alla violenza, la sovranità della sostanza sulla forma e l’ipocrisia, la priorità dell’aiuto al bisogno indipendentemente dai vincoli di legge (guarigioni di sabato), la radicalità verso il male (peccato), ma non verso i singoli (peccatori) che venivano invece dalla legge segregati o colpiti (mentre da lui costantemente cercati a loro salvezza), l’attenzione incondizionata verso gli ultimi e l’amicizia portata a modo comportamentale e di vita verso tutti, buoni e cattivi, l’adesione conforme alla volontà di Dio (che tra l’altro corrisponde anche all’apice della filosofia stoica per quanto con diverso concetto circa Dio) etc.
Allora se le risposte dell’uomo circa Dio sono da sempre due, positiva o negativa, la scelta (e perfino la non scelta) è condizionata dalla coscienza di ogni singola creatura, caso per caso, in misura di quanto essa impari dalla propria vita e intenda orientarla con atti di volontà.
La ragione non soccorre in questa scelta, come già ebbe a dire Pascal cui non difettavano mente e intelligenza luminose, ma vi intervengono variabili umane sia singole sia collettive: il risultato, non essendoci possibilità di prova (in qualsivoglia senso), è comunque sempre e solo speranza, per quanto tenace e partecipata.
E poiché lo spirito prevale sulla lettera -intesa questa come mera parola scritta e quindi scissa da pensiero, intenzione e fini di chi scrive (onde è interpretazione teleologica se si voglia intendere oltre al testo solo materiale e letterale)- consegue che una vita orientata a portare, nel modo in cui ci si riesce, bene agli altri, può produrre qualche inaspettata sorpresa anche all’ateo facendogli, nella morte, trovare una consolazione diversa e più grande da quella in precedenza razionalmente coltivata nella sua vita di terra che nella terra e nello spazio finisce.
Così come in virtù del soccorso lungamente prestato al prossimo per mezzo di una filosofia in cui trama e ordito sono amicizia e solidarietà ben diverso può essere anche il destino del medesimo Epicuro rispetto a quello, forse un po’ troppo sbrigativamente individuato (e fondato, appunto, sulla lettera), del padre Dante che lo associò senza appello a coloro che l’anima col corpo morta fanno.
LMPD