APOCRIFA – Per aver pace
Lei è una signora bella, ancora giovane, ma immersa in quella palude di tristezza che diviene depressione sempre più grave e sempre più difficile da contenere pur con le cure.
Non trova rimedio, anzi, nella vita sentimentale né il lavoro, così importante anche per l’equilibrio dell’essere umano, non l’aiuta.
Ha una bambina di tre anni malata che tiene, come è abbastanza normale in casi simili, dividendo a turno la disponibilità del tempo con l’uomo da cui è separata.
L’indomani tocca a lui tenere la piccola.
Ora cala la sera e il buio, che copre ogni cosa, tracima nel suo cuore forse ancora più pesante e solitario del solito.
Così prende per mano la bimba, senza dimenticare di tranquillizzarla con la carezza, e sale con lei in automobile dove la avvolge in una coperta per ripararla e tenerla al caldo ora che anche l’umido dell’autunno aumenta ogni giorno.
Guida con calma fino al fiume e si ferma a un ponte che, oltre al suo nome geografico ne porta un altro, datogli dagli abitanti della zona, con origine di avvenuta tragedia in recente passato.
Scende senza fare rumore e prende in braccio la piccola che, all’uso dei bambini, il tragitto in automobile ha fatto tranquillamente addormentare e la stringe dolcemente a sé per non disturbarne il sonno.
La signora scende cautamente lungo la riva e arriva all’acqua e vi entra e non appena avverte la prima spinta della corrente abbraccia ancora di più la sua bimba sempre addormentata e le si abbandona.
Pietoso il fiume, che tante ne ha viste nella storia, lunga come il suo corso verso il mare, il verd’azzurro Adriatico, le prende ambedue, abbracciate come sono, e se le porta a valle per qualche chilometro e garbato le depone, sempre abbracciate, sulla ghiaia sabbiosa di una piccola striscia emergente dalle onde scure.
Lì si arrestano temporaneamente le spoglie, ritrovate poi da chi le ricerca, e le loro anime proseguono leggere, sempre avvinte o forse ora di nuovo per mano, fino a fermarsi placide nelle quiete braccia misericordiose del Signore in attesa.
Evento di pena immensa, anche questo, non dissimile da tanti altri -diversi, ma pur sempre uguali- che ha le sue radici nell’amore.
Amore che induce la paura incontenibile di lasciare solo nel mondo l’essere amato debole e incerto indipendentemente dalla presenza, o meno, di altri soggetti (che a volte ci sono e altre non ci sono) i quali, nel terrore privo di speranza di chi ama, non paiono in grado di sostituire e provvedere al bisogno.
È troppo facile, e anche superficiale e ingiusto, osservare -da fuori- che si tratta di amore distorto perché è evidente che la distorsione, se così può chiamarsi la condizione che orienta il sentimento, ha origine in un profondissimo amore privo dell’unica prospettiva che tiene in vita l’essere umano pur nelle più gravose difficoltà: la speranza.
Il duolo della terra, quando è noto, inevitabilmente trova un accompagnamento surreale nella legge il cui procedere è non dissimile dalla visione della talpa e cammina per atti dovuti sebbene anche inutili.
Così c’è un fascicolo giudiziario aperto per omicidio-suicidio e la terminologia astratta della burocrazia misura la distanza, né potrebbe essere altrimenti, della fattispecie dalla vita reale.
D’altra parte, siamo avvertiti da oltre duemila anni che la legge è lontana dal cuore cui non arriva se non per sterili parole.
Tornano in mente, per questa pena gravosamente insopportabile e per tante, troppe altre, versi del Pascoli, da La Voce, letti un tempo sui banchi di scuola e fors’anche con inconscio presagio di qualche sgomento:
[…] una notte, su la spalletta
del Reno, coperta di neve,
dritto e solo (passava in fretta
l’acqua brontolando, Si beve?);dritto e solo, con un gran pianto
d’avere a finire così,
mi sentii d’un tratto daccanto
quel soffio di voce… Zvanî... […]
Chi sa quale voce avrà udito, la signora, entrando in punta di piedi nel fiume mormorante con la sua piccola addormentata fra le braccia.
Un soffio di pace e nome di bimba.
Piuttosto dite un requiem per loro.
LMPD