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APOCRIFA – Da 3 a 10 anni

Il titolo è ripreso da quello (Il bambino da 0 a tre anni) di un libro scritto anni or sono da un ricercatore statunitense, professore di pediatria clinica che sottolineava come la primissima età dell’essere umano fosse di importanza basilare per la sua crescita e ne affrontava le tematiche in rapporto all’evoluzione emotiva e comportamentale.

Osservazioni, quelle del professor Brazelton, che negli anni ’50 erano contro corrente a fronte di opinioni, scientifiche e non, per gran parte delle quali il neonato non capisce niente e quindi nei suoi primi tempi di vita è come un animaletto in una sorta di limbo in attesa della comparsa di sensibilità diverse da quelle minime essenziali del succhiare e dell’evacuare (esercizio a proposito del quale già Freud ebbe a dire che l’organo a ciò deputato era stato in effetti molto innervato dalla natura allo scopo di rendere, sebbene inconsciamente, piacevole l’uscita dello scarto).

Va da sé che tale vasta communis opinio non coincidesse con l’esperienza di più numerose madri le quali sapevano come il proprio piccolo fosse un unicum e per istinto e tradizione (in senso etimologico), contrariamente alla dottrina dominante, lo tenevano in braccio, cullandolo e parlandogli e cantandogli, e sapevano riconoscere le diverse cause del suo pianto: ma erano idee di donne.

In una parola, divenne scientifico che l’adattamento del piccolo al nuovo mondo dipenda anche dalle modalità in cui, da subito, è accolto e accudito.

In questi anni chi scrive ha fatto esperienza di due altri piccoli, nel periodo dalla nascita alla scuola primaria, in via diretta e a tempo ben maggiore di quando non avesse potuto fare con i figli.

E lungi da pensare di avere scoperto qualcosa in argomento difficile già per chi vi si dedica, la sua esperienza è stata, ed è, di ammirazione e di stupore a fronte di un miracolo in continuità giorno dopo giorno.

Non dissimile dal rimirare la germinazione di un seme dal momento in cui il suo primo verde spunta dalla nera terra  e lo si accompagna innaffiandolo e, per così dire, tenendolo per mano.

Fin dal principio il neonato è cosciente: la sua piccolissima mano si chiude rapida e salda attorno al dito di chi lo tiene in braccio, i suoi occhi si aprono e si muovono in cerca (anche se li dicono non vedenti) e le sue labbra si atteggiano a misteriosi sorrisi.

Poi è, senza sosta, un aprirsi di intelligenza e di sentimento e di fantasia allo stato puro, materia primordiale intatta e potente, così come il suo collegamento con sensi e pensiero è immediato.

Similmente il nascere dei movimenti, il rotolarsi supino e quindi alzarsi da solo, e l’apparire di suoni ingiustificatamente giudicati indistinti, ma ben delineati nel loro divenire che precedono la parola, e di segni che, variamente tracciati con qualsivoglia medium abbia il piccolo a disposizione, precedono il disegnare e il colorare e lo scrivere.

Le modalità del piangere o del ridere o del rimanere in (eccezionale) serietà e meditazione (quasi il pensiero sia affisso in qualcosa di improvvisamente manifestatosi) indicano quasi sempre con chiarezza le loro rispettive domande e risposte.

Risulta sempre più evidente, in progressione con il tempo che trascorre per il piccolo non mai lento, l’importanza e il valore, forse non sempre del tutto considerati dagli adulti (a loro volta distratti o deviati da cause e casi diversi), del rapporto spontaneo del piccolo con le persone e con l’ambiente: da subito famiglia e fuori-famiglia: nido e asilo e scuola primaria.

Il piccolo ha fiducia, si affida, confida e si fida in maniera così spontanea, fedele e totale che se l’adulto se ne ricordasse meglio e più sovente  eviterebbe buona parte dei suoi numerosi errori.
A tre anni la creatura è completa, comprende tutto, vede tutto, ragiona in modo consequenziale, ha una fantasia senza confini, interagisce e vuole fare. Inoltre, è attratto dagli esempi che non mai manca di osservare, anche quando sembra distratto o assente, e assorbe come una spugna.

Stare con i piccoli non è  sine cura, ma impegnativo anche sotto il profilo psicologico e sovente è proprio la stanchezza a indebolire l’efficacia del rapporto: vivere con il piccolo è un lavoro a tutti gli effetti e fra i più complessi in termini di delicatezza e di difficoltà perché, fra l’altro, non ha sosta e richiede sempre priorità e scelte anche difficilmente conciliabili con certe contingenze della vita, ma che vanno in ogni caso governate  senza dimenticare l’obiettivo.

Quando si parla di sacrificio non si fa altro che rimarcare, peraltro correttamente, il contenuto sostanziale del sostantivo: sacrum facere nella sua consapevolezza terminologica.
Questo sia detto, in primis, per i genitori e per ogni altro a vario titolo coinvolto con particolare riguardo agli assistenti di nido e ai primi insegnanti.

A questo riguardo già i nidi (come ogni organizzazione) sono uguali solo nel nome, ma nei contenuti possono presentarsi agli antipodi: da aree di parcheggio a occasioni di crescita e scambio.

E così, a maggior ragione, asilo e scuola primaria per non parlare della famiglia.

L’aprirsi di intelligenza e sentimento così come il collegamento con sensi e pensiero e fantasia della novella creatura non può tuttavia, e verrebbe da dire sfortunatamente, rimanere allo stato puro, ma è sottoposta e accompagnata dall’influenza delle condizioni esterne, personali e ambientali, sia in negativo sia in positivo.

E l’influenza può anche essere piccola o perfino piccolissima, ma continua, costante, ripetitiva.

Che se poi è anche grande in negativo, diviene tragedia veridicamente annunciata.

Su questo tèma si sono inutilmente consumate anche non poche utopie filosofiche o socio-didattiche e permane, in ogni modo, la sua ineludibile importanza sia a livello singolo sia collettivo: perché la persona e la società qui hanno la loro inesausta origine.

In tale modo ha origine la dinamica di tesi/antitesi, buono/cattivo, bello/brutto, giusto/ingiusto, vero/falso etc che -variamente vulnerando, né potrebbe accadere altrimenti- l’originario equilibrio conduce al divenire dello sviluppo dell’essere umano ora considerato solo da tre a dieci anni, ma in effetti sviluppo non mai fermo fino alla morte.

Nella prima fase i vulnus allignano nel mal governo, nella discordia e competizione, gelosia compresa, nella violenza, nel turpiloquio e nel disinteresse della famiglia che si declinano in esempi di vita privi di amore e di servizio (in buona parte la medesima cosa), ma nondimeno subito fatti propri dalla creatura.

Succedanei a tempo pieno divengono allora la televisione, i cartoni animati (ce ne sono di folli e di idioti in cui e. g., a parte esplosioni come fuochi d’artificio, il segnale per prendere la pedina avversaria è kill: poi c’è chi, cresciuto, ci prova anche per vedere l’effetto che fa), il personal, il tablet e non è raro vedere, anche fuori casa, piccoli sfortunati cui venga fornito il telefono mobile onde, giocandoci, non disturbino.

Allo stesso modo un tempo, ma meno colpevolmente, nelle campagne dovendo tutti -giovani e vecchi e uomini e donne e bambini- sobbarcarsi il lavoro manuale mai finito, si dava all’infante portato seco in una cesta un rudimentale tappo di stoffa o ciuccio imbevuto nel vinello per farlo dormire.
Oggi il ciuccio è tecnologico, ma l’intossicazione indotta paragonabile.

E come nella famiglia, così nella scuola prae e primaria (quando la chiamavano ‘elementare’ era maggiormente resa l’idea che fossero anni non solo temporalmente antecedenti, cosa ovvia, ma anche fondamentali per le basi elementari e perciò non sostituibili) la disponibilità e la sensibilità degli adulti, oltre alle specifiche competenze e qualità, fanno la differenza: anche questo è lavoro come quello dei genitori, non riducibile a mera prestazione oraria (quasi nessun lavoro, in realtà, lo potrebbe, ma lasciamo perdere) che postula, nella pazienza, capacità grande di servizio  e di intervento sapiente.

I danni al piccolo arrecabili dai cattivi maestri sono gravi e non di rado irreversibili già in tenera età.

La realtà sociale ed etica più trasparente (e la realtà socio-politica perché i bambini dopo la primaria imboccano la strada per diventare cittadini a pieno titolo) hanno trovato mirabile sintesi in alcune parabole troppo spesso pretermesse quasi solo appartenenti a letteratura spirituale.

La parabola del lievito che pur in piccola quantità, se è pulito e non corrotto, fa gonfiare una incredibile quantità di farina e quella del granello di senape da cui nasce un albero grande destinato a essere pieno di nidi e di vita.

Condizioni comuni sono sia la piccolezza, il cui elogio è trasversale in tutto il Vangelo, sia il tempo e il saper attendere.

Dove senza l’abbaglio di sogni tanto ideologici quanto pericolosi per una futura terra tutta luce e tutta fiori (l’utopia superba e mortifera di tante rivoluzioni) il risultato finale è in contrasto insanabile con il potere e la tracotanza, con il presto e subito, con il grandioso e l’imponente che non fanno né pane né nido né voli, ma armi e caserme e sequestro del prossimo.

Si comprende allora con tragica e certa chiarezza perché non ci sia mai stata pace e perché continuerà a non mai esserci pace nel mondo, a dispetto delle costanti menzogne dei poteri politici ed economici che in mala fede lo governano: fino a quando i bambini, di ogni colore, continueranno ad avere accanto a sé la morte e adulti al servizio di idoli muti e, nei fatti, ancora più vili e menzogneri di loro stessi.

A meno che per pace non si intenda quella cui, secondo Tacito, si riferisce Calgàco, comandante dei Calèdoni, nella sua nobile allocuzione (andrebbe fatta leggere a scuola e studiare a memoria ai sonnolenti e ipocriti rappresentanti all’Assemblea delle NU) prima dell’ultima battaglia (persa) contro l’invasore imperialista romano: dove fanno il deserto, lo chiamano pace (Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant).

In tale caso essa è già ampiamente diffusa e non solo nel Medio Oriente.

LMPD

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