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APOCRIFA – La città dolente

A fronte dell’ultima nota ISTAT che ha fotografato nel terzo trimestre (luglio-settembre) di quest’anno un’economia del Paese stabile (ferma) rispetto al trimestre precedente e, vs il corrispondente periodo del 2023, cresciuta dello 0,40%, a fronte dell’obiettivo del +1% per l’anno in corso, c’è una manovra di bilancio la quale, a giudizio degli esperti, galleggia.

Per il 2025 l’obiettivo del governo sarebbe +1,2%, ma le stime del FMI e della Banca d’Italia, allo stato, delineano una crescita ancora inferiore all’1%: 0,8% – 0,9%.

La valutazione di cui sopra tiene doverosamente conto delle numerose condizioni che limitano la manovra, ma in sostanza si ritiene che essa non sia in grado di smuovere la struttura del Paese a parte, ovviamente, le valutazioni ideologiche che si accendono regolarmente in presenza di una capacità finanziaria limitata (familiarmente soprannominata coperta e rende bene l’idea perché ogni partito e consorteria cerca di tirarsela dalla propria parte, stropicciandosene altamente di quelli cui essa viene a mancare).

Molto in breve:

La manovra di bilancio prevede circa 30 miliardi di spese pubbliche, finanziate per 20 miliardi da maggiori entrate (tassazione) e per 10 miliardi da indebitamento.

Gran parte della manovra è volta a realizzare l’aumento dei salari netti attraverso una riduzione del relativo prelievo fiscale e, allo scopo, è confermato l’accorpamento delle prime due aliquote di imposta e aumentato, dagli attuali 35 mila euro di reddito annuo, l’insieme dei beneficiari fino ai percettori di 40 mila euro.

Quindi mancano, né può essere diversamente senza modifiche delle condizioni di galleggiamento, interventi di politica economica atti a traguardare obiettivi maggiormente strategici come gli investimenti: in istruzione, ricerca, innovazione.

Inoltre, persistono, ma in lontananza e non possono essere perseguiti per carenza di risorse, obiettivi non meno fondamentali come riduzione della povertà, fattualmente registrata, politiche per il lavoro, recupero della sanità, governo dell’immigrazione.

Avere maggiori risorse da spendere nelle direzioni sopra dette postula cambiare i titoli delle spese (trasferendo le risorse da un uso a un altro) e/o risparmiare spese comprimibili e/o maggiore indebitamento e/o maggiori entrate.

Ma quando si tratta di ragionare in termini di maggiori entrate appare l’ombra della tassazione, che è probabilmente l’unica laica bestemmia (bipartizan) rispetto alla quale la guardia politico-sociale permane altissima e si ricorderà come il ministro competente avesse fatto un (incauto, sebbene corretto) riferimento alla necessità di contribuzione (tassazione) da parte di tutti in rapporto alle proprie capacità, così come disposto (anche) dalla Costituzione e come si fossero aperte le cateratte celesti: i riferimenti alle tasse non sono ammessi perché tutti i gagliardetti politici nell’agone, e non sono pochi, hanno la medesima parola d’ordine da indirizzare al popolo: le tasse non si toccano, anzi si abbassano.

E siamo così alle porte della città dolente, ma davanti alle quali porte anche prestamente ci si ferma accontentandosi, da parte di tutti e politici in primis, della aprioristica parola d’ordine più sopra già ricordata che le tasse non si toccano, anzi si abbassano.

Il ministro, in realtà, aveva da un lato richiamata un’ovvietà, ma dall’altro omesso una verità vera che tutti (o quasi) ben si guardano mai dal richiamare e che è costituita dal funzionamento e dai risultati (in termini di entrate per lo Stato) del sistema fiscale vigente.

Il 29 ottobre scorso alla Camera c’è stata la presentazione dei risultati dell’Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate 2024: “Le dichiarazioni dei redditi ai fini IRPEF per importi, tipologie dei contribuenti e territori negli ultimi 15 anni e il difficile finanziamento del welfare italiano” curato dal Centro Studi e Ricerche di Itinerari Previdenziali in collaborazione con CIDA.

Un articolato documento, curato da esperti, che analizzando in base ai dati MEF e Agenzia delle Entrate le dichiarazioni dei redditi ai fini IRPEF, allo scopo di verificare la sostenibilità finanziaria del welfare e, in particolare, se le entrate da fiscalità generale siano sufficienti a finanziare la spesa per la sanità e per l’assistenza sociale a carico dello Stato, delle regioni e degli enti locali, mette in luce alcuni punti fondamentali, ma poco noti o comunque non presi in considerazione né dalla pubblica opinione né dal livello politico.

È sostanzialmente invariata la quota di contribuenti che effettivamente sostiene il Paese con tasse e contributi e al contempo troppo alta quella di cittadini totalmente o parzialmente a carico della collettività.

Su 42 milioni di dichiaranti il 75,57% dell’intera IRPEF è pagato da circa 10 milioni di contribuenti, mentre i restanti 32 milioni ne pagano solo il 24,43%.

Inoltre su una popolazione di 59.030.133 cittadini residenti sono 42.026.960 quanti hanno presentato una dichiarazione dei redditi nel 2023 (con riferimento all’anno di imposta precedente). A versare almeno 1 euro di IRPEF solo 32.373.363 residenti, vale a dire poco più della metà degli italiani: a ogni contribuente corrispondono quindi 1,405 abitanti.

Sommando tutte le fasce di reddito fino a 29mila euro, si evidenzia dunque che il 75,80% dei contribuenti italiani versa soltanto il 24,43%: di tutta l’IRPEF: una fotografia più vicina a quella di un Paese povero che di uno Stato membro del G7 e che parrebbe oltretutto poco veritiera guardando a consumi e abitudini di spesa degli italiani.

In sostanza, quindi, è confermato che una grande parte di italiani paga così poche imposte o non ne paga per nulla da essere totalmente a carico della minoranza che paga, con redditi da 35 mila euro lordi annui in su, laddove le agevolazioni e i bonus rivolti a cittadini e famiglie nel 2024 con ISEE inferiore a 35mila euro sono numerose (si contano ben 15 titoli).

Il professore Alberto Brambilla, già Sottosegretario di Stato al Ministero del Welfare con delega alla Previdenza Sociale dal 2001 al 2006 e presidente del Centro Studi sottolinea che “Non è corretto descrivere l’Italia come un Paese oppresso dalle tasse, poiché i contribuenti su cui grava il carico fiscale, e di riflesso il finanziamento del sistema di protezione sociale, non è che uno sparuto 24%” e indica inoltre l’anomalia del binomio meno dichiari e più avrai dallo Stato rilevando che “siamo in presenza di un’evasione di massa fortemente incentivata dallo Stato. E la flat tax è un motore di produzione di sommerso e di lavoro nero”.

Il Sole 24 Ore ebbe a stilare nello scorso giugno, ricavando i dati dal Dipartimento delle Finanze e utilizzando gli Indici Sintetici di Affidabilità (ISA) che valutano l’affidabilità fiscale dei contribuenti su una scala da 1 a 10, una classifica delle categorie con maggiore propensione all’evasione fiscale che è tutta un programma: percentuali di inaffidabilità dal 78,5% al 51,4% distribuite fra esercizi e attività che costituiscono l’ossatura della vita sociale del Paese.

La conclusione si affaccia quindi da sé: senza un reale adempimento del disposto dell’articolo 53 della Costituzione (Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva) l’Italia non sarà mai un Paese civile, ma un lanternino di coda galleggiante a rimorchio e, al contempo, un insieme di genti abili (non tutte, ma in gran parte: si dolgono delle tasse, ma quanti le pagano?) a praticare la cultura del piagnisteo, specialità che rende sempre ed è radicata a tutti i livelli a dispetto della generale debolezza del sistema scolastico.

Nessuna critica sui (costituzionali) criteri di progressività cui informare il sistema tributario e quindi nessuna critica neanche ad agevolazioni e bonus ove questi siano rivolti ad aiutare la povertà a risalire la china, ma non il lavoro nero e non gli evasori.

LMPD

 

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