DE LITTERIS ET ARTIBUS – Il cinema ritrovato – In nome del popolo italiano, Dino Risi (1971)
A destra, politicamente parlando, l’industriale Ing. Renzo Santenocito (Vittorio Gassman) tangentista romano con agganci nelle alte sfere, a sinistra un giudice istruttore solitario, integerrimo e irriducibile, il Dott. Mariano Bonifazi (Ugo Tognazzi) che cerca di incastrarlo in un caso di omicidio, indagando sulla morte di una ragazza.
I sospetti di Bonifazi si indirizzeranno appunto su Santenocito e quando il giudice avrà nelle proprie mani la prova dell’innocenza del potente -e odiato- indiziato finirà con distruggerla.
Ma torniamo alla trama del film.
Indagando appunto sulla morte di una giovane “escort” tossicomane, Silvana, avvenuta in circostanze che fanno pensare a un delitto, il giudice Bonifazi scopre, interrogando i genitori della ragazza morta, che nella sua fine può in qualche modo essere implicato l’industriale Renzo Santenocito, ricco e spregiudicato speculatore che sotto l’etichetta delle “pubbliche relazioni” si serviva di Silvana per agganciare e intrattenere i suoi altolocati clienti.
Santenocito, dopo aver cercato di bloccare sia con le minacce che con le lusinghe l’inchiesta di Bonifazi sul suo conto e fatto rinchiudere in manicomio il vecchio padre, che non si era voluto prestare a inventargli un alibi per la sera della morte di Silvana, riesce finalmente a procurarsi una falsa testimonianza che dovrebbe scagionarlo definitivamente.
Bonifazi, però, smaschera il falso alibi di Santenocito, di cui ordina immediatamente l’arresto; l’industriale tuttavia non ha, pur tra le sue molteplici colpe, anche quella di aver ucciso Silvana: lo scoprirà lo stesso giudice istruttore leggendo il diario, ritrovato perquisendo la stanza della povera ragazza che risulterà essersi suicidata.
Al termine di una giornata in cui Roma impazzisce per una vittoria dell’Italia sull’Inghilterra, Bonifazi giungerà con amarezza alla vera conclusione dell’inchiesta: certe cose avvengono perché sono il sistema e la perversa coscienza generale a consentirle.
Il giudice Bonifazi distruggerà quindi la prova dell’innocenza dell’indiziato, decidendo perciò di trascinarlo ugualmente in tribunale, per colpire, attraverso lui, tutto quel sistema che Santenocito finisce con il rappresentare.
“In nome del popolo italiano” è soprattutto un ritratto antropologico dell’italiano medio, fatto con una lucidità impressionante: imprenditori truffaldini con una certa propensione a sfruttare la prostituzione per le proprie “pubbliche relazioni”, giovani escort che passano di letto in letto, magistrati senza macchia e senza paura che abusano della loro posizione per portare avanti una battaglia ideologica.
I mali della nazione: inquinamento, corruzione, mafia, bigottismo e razzismo ma, alla fine della vicenda, tutti sotto la bandiera tricolore a festeggiare la vittoria della Nazionale di calcio.
La stessa figura del magistrato Bonifazi si colora nel finale di una cupa connotazione integralista e giustizialista: Tognazzi regala al suo personaggio una ambivalenza che è la forza trainante di tutto il film: in nome di quale popolo sta emettendo la sentenza?
Si possono occultare delle prove per emettere una sentenza etico-politica?
Alla fine del film e della vicenda, mentre masse di tifosi si riversano nelle strade, tra le urla e gli atti di teppismo dei tifosi, il giudice Bonifazi vede idealmente i peggiori vizi dell’italiano cialtrone e poco di buono, da lui identificato nella persona dell’imprenditore Santenocito.
Disgustato, Bonifazi decide di distruggere tra le fiamme di un’auto il diario della ragazza, facendo condannare l’innocente Santenocito per un reato non commesso.
Anche il quadro ambientale rappresentato nel film è decadente: mostri architettonici in demolizione, mari inquinati dagli scarichi industriali, strade che si sgretolano, palazzi di giustizia che cadono a pezzi.
L’orrore ambientale è specchio dell’avidità e della grettezza morale di un paese che tira avanti con la “botta di gomito” e la strizzatina d’occhio: il qualunquismo è trasversale e colpisce tutte le classi sociali.
Dino Risi, regista del film, aiutato dalla impeccabile sceneggiatura di Age e Scarpelli, recupera il grottesco de “I mostri” (1963) e il cinismo de “Il sorpasso” (1962) per evidenziare il crollo socioculturale dell’Italia di inizio anni ‘70, divisa tra destra e sinistra, rivoluzionari e conservatori.
Antonio Grossi