APOCRIFA – Dio salvi il re
In gran parte degli Stati, nel mondo, non esistono sistemi di governo democratici e, là dove ancora ci sono, essi mostrano non di rado difficoltà di varia natura.
In Europa come negli Stati Uniti si osserva come siano attive forze in grado di spingere i sistemi verso evoluzioni che lungi dall’apparire positive (il processo dell’evoluzione non è sempre necessariamente verso il miglioramento, quantomeno sul piano etico-sociale) sembrano piuttosto adombrare devianze il cui impatto non è facile da valutare in concreto, non appena si rimanga al di fuori di posizioni ideologiche a priori.
Nei sistemi democratici ovviamente, e anzi in misura ancora maggiore rispetto ai sistemi autocratici che non postulano una partecipazione attiva da parte dei cittadini (popolo più di sudditi che di cittadini), un ruolo di primo piano spetta evidentemente a quelle figure, di politici, capaci di aggregare consenso in misura maggiore rispetto ad altri concorrenti.
I politici, e in particolare chi intende emergere verso posizioni di potere, si nutrono sostanzialmente di consenso (di voti) e su questo piano si svolge una partita, più precisamente un agone destinato a degenerare in conflitto, in precario equilibrio o in bilico fra opposti orientamenti, quasi al pari di calamite che attraggono da una parte o dall’altra.
Sono i programmi elettorali, in pratica le promesse, offerti per attirare i voti necessari a emergere nelle elezioni.
Il rapporto intercorrente fra promessa e probabilità o reale possibilità di realizzazione, al netto degli imprevisti e difficoltà che comunque sempre connotano le vicende umane, misura la serietà degli individui (come dei rispettivi partiti o viceversa) e lo stato di salute generale della stessa democrazia non dissimile, anzi coincidente, dallo stato di salute civica della popolazione coinvolta.
Una democrazia è sufficientemente stabile ove la competizione si svolga fra programmi realistici e non necessariamente parametrati e misurabili solo nell’immediato quanto ai risultati attesi.
Se i competitori promettono cose irreali o impossibili e l’elettorato, o buona parte dell’elettorato, ci crede è già presente il baco della demagogia che della democrazia è la caricatura e al contempo il virus della possibile, prima o poi, autocrazia.
E lo squilibrio negativo che consegue nello insieme socio-politico tende a rendere progressivamente sempre più difficile, fino a una sostanziale inerzia superabile solo da fortunate o favorevoli casualità oggetto più di speranza che di aspettative, l’emergere di soggetti volti, come richiede il sistema democratico, alle pratiche politiche positive (realismo) piuttosto che a quelle istrioniche (circonvenzione).
In astratto e al di fuori di apriorismi ideologici si dovrebbe intravedere chiaramente, agli occhi quantomeno della maggioranza dei cittadini, la differenza che intercorre fra un leader, pur al netto dei suoi umani difetti, e un capo-polo o capobastone.
Ora questo non sempre avviene nella pratica, quantomeno nelle fasi iniziali, ma si avverte poi con sempre maggiore chiarezza nel corso degli avvenimenti.
E’ abbastanza evidente come, allo stato, quasi ovunque la tendenza di esponenti (ancora) democratici alla (propria) personalizzazione sia in crescita e forse anche attendibilmente sostenuta sia da una auto-considerazione acritica o imprudente sia dalla persuasione che nel flusso del consenso, una volta essendo riusciti a entrare, si debba rimanere a ogni costo.
Donde il ricorso a ogni mezzo pur di non cedere al ricambio che pur sarebbe, in astratto, fisiologico e anzi utile al sistema democratico.
A condizione, ovviamente, di essere concordi su di una comune piattaforma minima di condivisi principi (uno dei quali sarebbe, appunto, l’alternanza e non il timore che l’avversario, una volta subentrato, si impossessi del potere per non più lasciarlo).
La parola democrazia è sulla bocca di tutti, in particolare di coloro che la insidiano, ma non è certo né attendibile immaginare che tutti la intendano quantomeno a livello del sopra detto minimo comune denominatore.
E le conseguenze sono che, più o meno efficacemente, diversi protagonisti formalmente democratici, almeno alle origini, aspirino però a blindare le proprie posizioni in chiave se non (ancora) autocratica, quantomeno non correttamente o certo democratica.
Interessante, al riguardo, è il Tempo dei tiranni, del venezuelano Moisés Naìm, professore, analista politico e scrittore, che descrive come personaggi attuali (in maggioranza viventi), populisti irresponsabili, manipolino le istituzioni democratiche allo scopo di ridisegnare, credendosi immortali, a proprio favore lo schema del potere politico.
La democrazia non è certo obbligatoria né automaticamente valida una volta per tutte,, ma anzi difficile sia da coltivare sia da difendere come anche dimostra la fine che fecero coloro i quali per primi la inventarono, e richiede un alto grado di civilizzazione condivisa: patrimonio comune regolarmente eroso però dalla demagogia.
Oltre a un certo punto di espansione della quale diviene ostico risalire la corrente per tornare alla fonte.
La vicenda della Francia, apparsa come una partita personale giocata in egocentrismo e (quasi) persa bucando una o più gomme di proprietà non del tutto dell’incauto giocatore, è, sotto questo profilo, impressionante.
Come del pari lo è la situazione negli USA.
Democrazie ambedue originate da due rivoluzioni quasi gemelle di cui la prima ha rapidamente mangiato i suoi figli trasformandosi in tirannide e poi recuperando, ma a fatica e nel tempo, e di cui la seconda ha iniziato a mangiarli ben più tardi, ma, ora che avviene, non si intuisce se e quando riuscirà a smettere e a ricredersi.
Che in un Paese della grandezza (anche per la vastità e il potenziale numero di candidati) e delle tradizioni civili come gli USA il sistema (democratico) non sia riuscito a presentare due contendenti diversi dagli attuali è sconfortante culturalmente oltre che pericoloso per i suoi cittadini e non solo per loro.
La prospettiva di avere a breve quale presidente, con il potere che connota in quel Paese la carica, uno di questi due signori è da film di fantascienza di bassa lega (oltre che vietato ai minori, come usava una volta) con l’unica differenza di essere vero.
Così come è vera la paura, oltre che il rancore, che sotto molteplici sfaccettature spinge masse di pecore senza pastore a credere e ad aggrapparsi e a farsi usare da loquaci e arroganti mercenari.
Poi, paradossalmente, una lezione di cosa sia la democrazia e di come possa funzionare proviene non da una moderna repubblica dotata di una bella costituzione, ma da una antica monarchia che a giudizio di molti cammina voltata all’indietro verso cerimoniali quasi da operetta oramai incomprensibili, oltre che desueti, e da un ribollente cratere asiatico che nondimeno avanza facendo convivere tutti gli opposti immaginabili.
LMPD