APOCRIFA – Cieli sporchi

Anni or sono (nel 2016) il Museo Storico Italiano della Guerra (Rovereto) organizzò una mostra dal titolo Guerra aerea. Dalla Libia a Hiroshima 1911-1945 con una selezione di fotografie dedicate al bombardamento dal cielo, invenzione sviluppata dalla civiltà bellica nella prima metà del Novecento dell’arma aerea.
È doveroso riconoscere che le capacità progettuali e costruttive della scienza e della tecnica, così come i rispettivi processi di miglioramento continuo, non hanno uguali nemmeno nella più libera fantasia e sfrenata immaginazione quantomeno rimanendo nel perimetro della intelligenza naturale: nell’arco di neanche quaranta anni si è passati da un monoplano di legno e tela lungo dieci metri ideato nel 1910 da un ingegnere austriaco (Igo Etrich) come sviluppo da aliante (e ispirato al seme a due ali di un rampicante dell’arcipelago malese, Alsomitra macrocarpa, strutturato in modo da planare beccheggiando, cioè alzandosi verso l’alto per salire e scendendo verso il basso per ridiscendere e così volare a lungo) ai mostruosi B-29 Superfortress della Boeing statunitense.
Fermandoci al 1945, naturalmente, poiché le macchine prodotte dopo e quelle in uso attualmente fanno sembrare il B-29 una asmatica carriola dell’aria a quattro motori.
Il primo passo di questa nuova tecnica di guerra, che porterà ben presto a un crescente, inarrestabile, consapevole e programmato coinvolgimento della popolazione civile nel conflitto, è stato realizzato, invero su obiettivo militare, a opera di un aviatore italiano durante la guerra italo-turca e i luoghi sono le oasi di Ain Zara e di Tagiura in Tripolitania tenute dalle forze ottomane.
Protagonista l’ingegnere e aviatore genovese Giulio Gavotti che operò dal cielo a bordo di un Etrich Taube (poeticamente: Colomba) e dal fianco del velivolo lanciò a mano e a occhio sulle tende turche quattro granate da 2 chilogrammi ciascuna.
Ecco il resoconto, dalla lettera che spedì a suo padre: […] Dopo non molto tempo scorgo perfettamente la massa scura dell’oasi che si avvicina rapidamente. Con una mano tengo il volante, coll’altra sciolgo il corregile che tien chiuso il coperchio della scatola; estraggo una bomba la poso sulle ginocchia. Cambio mano al volante e con quella libera estraggo un detonatore dalla scatoletta e lo metto in bocca. Richiudo la scatoletta; metto il detonatore nella bomba e guardo abbasso. Sono pronto. Circa un chilometro mi separa dall’oasi. Già vedo perfettamente le tende arabe. Vedo due accampamenti vicino a una casa quadrata bianca uno di circa 200 uomini e, l’altro di circa 50. Poco prima di esservi sopra afferro la bomba colla mano destra; coi denti strappo la chiavetta di sicurezza e butto la bomba fuori dall’ala. Riesco a seguirla coll’occhio per pochi secondi poi scompare. Dopo un momento vedo proprio in mezzo al piccolo attendamento una nuvoletta scura. Io veramente avevo mirato il grande ma sono stato fortunato lo stesso; ho colpito giusto. Ripasso parecchie volte e lancio altre due bombe di cui però non riesco a constatare l’effetto. Me ne rimane una ancora che lancio più tardi sull’oasi stessa di Tripoli. Scendo molto contento del risultato ottenuto. Vado subito alla divisione a riferire e poi dal Governatore gen. Caneva. Tutti si dimostrano assai soddisfatti.
Il dado è tratto né il Vate pescarese si fa fuggire l’occasione di celebrare Passa nel cielo un pallido avvoltoio. Giulio Gavotti porta le sue bombe e scrive, fra le altre, la Canzone della diana (di duecentonovantotto versi: quella del Niuna cosa mai tu veda, o Sole, maggior di Roma!), una delle dieci del quarto libro delle Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi, dedicata all’impresa di Tripoli, città di fellonìa e all’itala vittoria sui Non uomini ma cani:
[…] e tu Gavotti, dal tuo lieve spalto
chinato nel pericolo dei venti
sul nemico che ignora il nuovo assalto!
Poi come il tessitor lancia la spola
o come il frombolier lancia la fromba
(gli attoniti la grande ala sorvola)
Anche la Morte or ha le sue sementi.
La bisogna con una mano sola
Tratti, e strappi la molla con i denti.
Di su l’ala tu scagli la tua bomba
alla subita strage; e par che t’arda
Il cuor vivo nel filo della romba. […]
La vita è sempre misteriosa e più seria anche di molti che la vivono e perfino in un testo che gronda retorica di dubbio gusto si trova una piccola verità che diventerà di lì a poco sempre più grande: l’intuizione del nemico che ignora il nuovo assalto prefigura tetramente l’uso della morte indiscriminata, anzi programmata, sulle popolazioni civili che a parte sirene e rifugi sovente del tutto inutili, vivono nell’ignoranza non tanto del destino, quanto delle scelte altrui che a loro rovina si realizzano dall’aria.
Il tenente Gavotti fu ammirato e prontamente imitato all’estero e nella Prima guerra mondiale, oltre a ricognizione fotografica e rilevamenti topografici, l’aereo fu diretto al bombardamento sulle città giustificato dalla foglia di fico che voleva i civili vittime casuali a motivo della difficoltà di realizzare lanci di precisione, mentre era già chiaro l’obiettivo di indebolire con la paura il morale dei nemici.
Sui vari fronti si contarono numerose incursioni e le città sperimentarono allarmi, oscuramento notturno, rifugi antiaerei, perdita di vite e distruzioni.
L’aviazione italiana non era rimasta con le mani in mano e nel 1935, durante la guerra in Etiopia, oltre alle bombe tradizionali usò, vergognosamente e tenacemente negandolo, anche ordigni all’iprite quindi, poco dopo, unitamente alla forza aerea nazista partecipò con gli esordienti trimotori SM.79 ai bombardamenti della guerra civile spagnola sugli abitati e, tra l’altro, si distinse nella distruzione della città basca di Guernica.
In data 8 febbraio del 1938, all’indomani del bombardamento di Barcellona, Galeazzo Ciano annota nel Diario di avere avvisato Mussolini circa la terrorizzante efficacia della distruzione apportata: Eppure erano soltanto 9 “S.79”, e tutto il raid è durato un minuto e mezzo. Palazzi polverizzati, traffico interrotto, panico che diveniva follia: 500 morti, 1.500 feriti. È una buona lezione per il futuro. Inutile pensare alla protezione antiaerea ed alla costruzione di rifugi: unica via di salvezza contro gli attacchi aerei è lo sgombro delle città.
Anche in questo caso, c’è qualcosa di vero che tornerà al mittente con interessi da usura.
Nel 1939, annus horribilis, le annotazioni nel Diario di Ciano sono specchio non solo della patologica confusione mentale dell’ondivago Capo, ma anche della farsesca impreparazione di un Paese con la faccia ringhiosa che si trova, ora, a confrontarsi non più con Ottomani, Etiopi o Albanesi e inopinatamente scopre vuoti i suoi magazzini: artiglierie antiquate e assenza di armi antiaeree e anticarro.
E infatti quando Mussolini vuole comunque entrare nel (breve, secondo le previsioni) conflitto assalendo la Francia moribonda e peraltro non riuscendo neanche a passarne il confine, contro gli stormi alleati che bombardano le città non valgono né caccia né contraerea: le luci bastarde del circo si sono spente da sole e gli alpini, che sparano dal Veglia agli aerei alleati diretti sulle città (e quindi da oltre mille metri di altezza) non giungono neanche a bersaglio per via della distanza in rapporto alle capacità tecniche delle armi in dotazione.
La Germania iniziò il 17 settembre il bombardamento aereo di Varsavia ove su circa 18.000 abitazioni oltre 8.000 furono distrutte con migliaia di vittime.
Nell’agosto 1940 iniziarono i bombardamenti tedeschi su Londra e quelli inglesi su Berlino. Poi Coventry, Lubecca, Colonia, Essen e Brema.
Chi aveva più mezzi teorizzò e mise in pratica il bombardamento a tappeto (area bombing) che andò via via intensificandosi.
Ad Amburgo fu sperimentata la Operazione Gomorra intesa a provocare con bombe incendiarie e spezzoni mescolati agli esplosivi tradizionali enormi incendi (tempesta di fuoco, Feuersturm) autoalimentati che distrussero la maggior parte della città uccidendo un numero tragico di civili e lo stesso avvenne a Dresda, città peraltro priva di obiettivi militari, ma rasa al suolo con intenti apertamente terroristici.
I bombardamenti sulle città italiane iniziarono nel giugno 1940, circa 24 ore dopo la dichiarazione di guerra alla Francia e alla Gran Bretagna e le ultime bombe caddero nel maggio 1945 sui tedeschi in ritirata verso il Brennero.
Nei cinque anni che passarono tra queste due date, quasi ogni città italiana fu bombardata, al nord come al sud, e la facilità con cui gli Alleati regolarmente bucavano difese che Mussolini aveva assicurato impenetrabili provocava, e.g. secondo un rapporto del 12 febbraio 1941 al ministero degli esteri (Royal Air Force bombing of Genoa), paura e ansia fra gli italiani visti in stereotipo sostanzialmente razziale che il regime certo non aveva per niente corretto, anzi assecondato facendone senza fatica macchiette a sua somiglianza.
Anthony Eden, in quel periodo segretario di stato per la guerra, scrisse a Churchill nell’agosto 1940: È mia convinzione che sia di importanza primaria sviluppare la nostra offensiva contro gli italiani nel Mediterraneo via terra, mare e aria. L’Italia è il partner debole [dell’Asse], e abbiamo più possibilità di buttarla fuori dalla guerra bombardandola rispetto a quante ne abbiamo con la Germania.
Le generalizzazioni incorrono in errori di prospettiva e gli Italiani, civili e militari, seppero dimostrarsi migliori dei grandi capi, militari e civili, che li avevano condotti allo sfacelo, pur restando loro la macchia di averli accettati, creduti, osannati, sopportati.
I bombardamenti a danno dei civili -e si avverava la previsione di Ciano (chi poteva, sfollava dalle città)- dapprima considerati ipocritamente ‘danni collaterali’ conseguenti agli obiettivi militari e alle zone industriali, furono ben presto teorizzati e realizzati da parte di RAF e USAAF in sistematica distruzione delle città come modo più efficace per vincere la guerra e in prospettiva terroristica vs le popolazioni.
L’epilogo di questo crescendo furono, sul piano bellico, Hiroshima e Nagasaki e, sul piano etico, la (improvvisa e inaspettata?) scoperta che in tutto il mondo i criminali di guerra si distinguono per l’appartenenza a due diverse categorie: quelli che perdono e quelli che vincono.
Ma la tragicissima esperienza non è bastata e dal mese di ottobre 1945 la ONU, ri-fondata (il suo processo costitutivo iniziò qualche mese prima di Hiroshima e Nagasaki) sulle ceneri della Società delle Nazioni da Paesi decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra e sostituta della Società, arranca -dato che le teste attuali sono uguali alle teste di prima, nello stesso pantano delle medesime difficoltà e impossibilità e impotenze.
LMPD