APOCRIFA – Giorno dopo giorno
Nel IV secolo a. C. ebbero origine, nell’antica Grecia e nella culla ateniese vegliata dalla nottola insonne simbolo di Atena cui siamo debitori non solo della libertà politica verso i Persiani, ma anche della stessa fondazione del pensiero occidentale, due scuole filosofiche minori rispetto a Platone e al suo grande allievo Aristotele, ma di particolare interesse per quello che avrebbero (hanno) ancora da suggerire alla coscienza dei contemporanei: il Giardino di Epicuro di Samo e la Stoà del fenicio Zenone di Cipro.
Alcuni secoli dopo Gesù ha confermato il perimetro di alcune loro intuizioni fondamentali che riguardano la relazione della creatura umana con il tempo.
Gli antichi Greci consideravano il tempo in modo duale e lo esprimevano con due termini distinti: chrònos e kairós.
Il primo è astratto e scorre scandito dal susseguirsi dei giorni e delle notti (e poi dalle lancette dell’orologio): la quantità, la durata.
Il secondo è concreto e corrisponde (può corrispondere) alle fasi della vita reale della creatura specchiandosi nel momento presente, cioè nel preciso momento considerato, nella situazione determinata e circoscritta rispetto alla quale la creatura consapevolmente agisce: la qualità, la sostanza.
Ai nostri antichi interessa (saggiamente) il kairòs che è, tra l’altro, la causa del patto di Faust con Mefistofele, di Faust sempre proteso verso un futuro di cui brama impossessarsi (Arrigo Boito sintetizza bene Goethe scrivendo, nel suo Prologo in cielo: … inassopita bramosia di saper il fa tapino ed anelante…) fino a scommettere che mai dirà egli all’istante arrestati, sei bello!
Mentre l’essere per l’uomo è (solo) l’istante presente scisso dalla nostalgia o dall’angoscia o dalla preoccupazione del passato e del futuro.
Dunque, stando a Diogene Laerzio (Vite dei filosofi), Pìttaco di Mitilene, uno dei sette sapienti anche secondo Platone (Protagora), ebbe a dire che la cosa migliore fosse badare bene al presente e nel V secolo il sofista Antifonte, docente ad Atene, insegnava che non vivere nel presente (l’unica realtà) era come lasciare il certo per l’incerto: Ci sono quelli che non vivono la vita presente, ma si preparano con molto zelo come se dovessero vivere non il presente, ma una qualche altra vita; e intanto il tempo si perde e fugge via¹.
Onde un certo orientamento filosofico era già, appunto, tendere consapevolmente e per libera scelta a rispecchiarsi nella realtà così come essa è e come si presenta: cioè necessariamente nel presente.
Epicureismo e stoicismo, che dottrinalmente mostrano diversità abissali, convergono nondimeno ambedue sulla medesima piattaforma operativa: il presente.
E tralasciano sia il passato sia, a maggior ragione, il futuro.
Epicuro, il cui stesso nome è bene augurante (compagno, alleato, soccorritore: un po’ come il nostro Salvatore) ritiene, controcorrente, che a nulla serva il filosofo se non aiuta il suo prossimo (e nel suo giardino, insegnava a tutti: donne e schiavi compresi) e, in polemica praticamente con tutte le altre scuole (stoicismo compreso) lo realizza, questo suo aiuto, nel modo concreto in cui ben riesce un democriteo: via le angosce paurose fisiche e morali poiché, composti come siamo da atomi, l’anima coincide con il corpo e la morte non interferisce mai con la vita: quando c’è la vita, non c’è la morte e quando c’è la morte non c’è più la vita (Lettera a Meneceo) dato che i nostri atomi saranno tornati nel flusso senza fine di tutti gli atomi di cui neanche gli dei si curano.
Mentre i desideri sono dannosi ove inutili (innaturali e artefatti) e buoni (naturali) ove corrispondenti a una vita semplice e sobriamente condotta il cui denominatore comune sia il piacere.
Lontani mille miglia, quindi, dal significato triviale normalmente rivolto all’epicureismo che i Padri della Chiesa avversarono poiché non riconosceva spazio al divino (anche se il divino pretermesso da Epicuro era quello antropomorfo dell’Olimpo).
La saggezza e il saper vivere si concretano nel desiderare solo quello che si può ragionevolmente conseguire e con ciò, pulendo e governando i propri sentimenti, lasciare agli stolti l’insaziabilità indotta da potere, ricchezza, disordinati piaceri del corpo e così via: vale a dire tutti quelli che sono caratterizzati dal non bastare mai e che pertanto non procurano piacere, ma ansia, dolore e preoccupazione.
In tal modo raggiungendo la tranquillità dell’animo che è pur sempre un piacere (così come, ad esempio, il togliersi di dosso un insetto e non essere più da questo infastiditi atteso il fatto che il piacere non dipende né dalla quantità dei desideri che soddisfa né dalla sua durata: in quel preciso momento del presente il piacere è infatti togliersi la pulce, in quell’altro bere acqua fresca alla fonte, in quell’altro ancora percepire la tranquillità d’animo sotto un cielo stellato prima di prendere sonno etc.).
Un’etica tutt’altro che facile da adottare nella pratica, quella di Epicuro, che è peraltro rimasta -fra le speculazioni razionali- irraggiungibile nella sua chiarezza e semplicità dogmatica per chi non ha credenza in Dio né istanza metafisica, ma solo nella beata natura trova, esercitandosi (esercizio spirituale), il suo riferimento.
Lo stoicismo, del pari, si concentra sul presente (pensare, fare, sentire) fino al punto che Marco Aurelio denomina Circoscrivere il momento presente il relativo esercizio spirituale.
E’ il presente nel quale si specchia, allo scopo di relazionarvisi eticamente, la coscienza del singolo uomo intesa come essa sia disponibile e si presenti in quel momento, cioè anche con il suo vissuto etico (non certo con la nostalgia del passato, ma con l’intervenuta -fino a quel momento- costruzione del sé).
Il presente è l’unica fase necessaria alla costruzione della felicità poiché è l’unico momento della vita sul quale l’uomo possa, se vuole, esprimere il suo potere (pensare, fare, sentire) laddove il passato non è più ed è sfuggito alla competenza umana (quod factum, infectum fieri nequit), mentre nemmeno il futuro dipende dall’uomo perché non è ancora (a parte il fatto che, per ciascuno singolarmente considerato, non è neanche detto un futuro ci sia).
Per lo stoico la felicità è la virtù, l’azione morale (così come per l’epicureo la felicità è il piacere) e anch’essa, piccola o grande che sia, non aumenta né con la quantità né con la durata: essa è la relazione positiva che s’innesta nell’attimo presente fra la natura (che è sempre totalità del reale in una visione panteistica: cioè anche Dio) e la disposizione e possibilità della creatura onde se e quando l’uomo si sincronizza, è in accordo, con la natura allora in quell’istante egli è felice.
Onde anche un solo attimo di felicità, per la durata di quell’attimo, corrisponde all’eterno.
La vocazione al presente, motivata razionalmente dalla considerazione della morte che incombe (il futuro ignoto e indisponibile), fa suggerire a Marco Aurelio l’avvertimento di compiere ogni azione come se fosse l’ultima della propria vita.
L’azione morale, la virtù sono il bene massimo in quanto interlacciano alla ragione che governa il mondo (Dio: destino, natura) la ragione della creatura che aspira accordarvisi: qualunque cosa ti accada è stata preparata per te dall’eternità, dice ancora Marco Aurelio, e l’intreccio delle cause ha dall’eternità tessuto insieme la tua sostanza e questo evento² .
L’etica stoica è orientata a un panteismo imbevuto di sostanziale ottimismo.
Il consenso quotidiano a Dio e al suo volere (Isaia 55, 8-9: Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie, oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri) trova un vertice di significato anche stoico nel avvenga/sia fatta la volontà di te (Mt 6,10) di Gesù, prima, quando insegna a pregare e, poi, quando drammaticamente, nell’orto, accetta che questa sia attualizzata sopra la sua stessa vita: …però non la volontà di me, ma la tua sia fatta (Lc 22,42).
Tutto il Vangelo è un (continuo) insegnamento a considerare il presente senza lasciarsi distogliere da preoccupazioni e angosce vane che provengono dal futuro (Per questo dico a voi non preoccupatevi… Mt 6,25) dal quale non mancano neanche talune connotazioni originarie rispetto al Figlio dell’uomo il quale, nel momento propizio del presente (che è quello di un’azione di salvezza orientata a cercare il malato per guarirlo) e a differenza di Giovanni, ha una considerazione tutta sua del digiuno (Mc 2,18-20) e non disdegna il banchetto, ma mangia e beve perfino (o di preferenza) con pubblicani e peccatori (Lc 7,34).
Così come a non voltarsi indietro verso il passato, se e quando si decida di volgere verso la conversione che è la sostanza fin dall’inizio della predicazione (evangelo): …è stato colmato il tempo ed è vicino il regno di Dio: convertitevi e credete nella buona notizia… (Mc 1,15).
Le parole di Gesù circa l’abbandono del passato sono, come noto, dure e risolute fino al fastidio (Lc 9,59-62) per la sensibilità attuale, ma nella realtà del suo tempo essendo -come tutte le parole evangeliche- protrettiche e non mai sistemiche riflettono il modo di ragionare e di esprimersi semitico che, non conoscendo l’astrazione greco-romana, utilizza termini concreti e terricoli badando a risvegliare nell’ascoltatore non una reazione logica, ma emozione e sentimento: in tal modo Gesù comunica in modo diretto e inequivoco la necessità dell’urgenza della conversione (gli stoici avrebbero forse detto dell’azione morale) per il tramite del disconoscimento (peraltro tatticamente solo strumentale) di principi anche religiosi che rimangono comunque validi.
Mentre per quanto concerne il futuro si limita, diciamo così, a tranquillizzare circa il fatto che anche chi andrà a lavorare per Dio (vale a dire a rispondergli) pur in ritardo estremo e all’ultima ora della sua misera giornata non sarà trattato diversamente dagli altri a causa della imperscrutabile e a noi totalmente ignota, oltre che inconoscibile, misericordia di Dio (Mt 20,1-16).
A differenza, e in superamento, degli antichi (che cercavano la tranquillità d’animo e la felicità in terra) Gesù è ben conscio che la vita è, e rimane, dura e pericolosa (per lui come per tutti: … a ciascun giorno basta la sua pena³ ), ma in aggiunta, Lui che ha parole di vita eterna (Gv 6,68), rivela la (fino ad allora sconosciuta) prospettiva metafisica conseguente alla conversione: la continuazione della vita.
Epicureismo, stoicismo e cristianesimo non sono solo tre grandi fasi nella storia del pensiero, ma etiche nelle quali, tuttora, si rispecchiano i comportamenti di numerosi uomini solleciti circa (comunque difficili) proposte e scelte spirituali.
LMPD
Note
¹ I Presocratici, Laterza, pag. 1002.
² Marco Aurelio, Pensieri, x, 5 (tradotti da P. Hadot, La Cittadella interiore, Milano 1966).
³ Mt 6,34.