APOCRIFA – La legge è uguale per tutti
Chiunque abbia avuto modo di mettere piede in un’aula giudiziaria penale ha probabilmente memoria di questa ben augurale scritta, La legge è uguale per tutti, che autorevolmente (sebbene essa sia anonima è invero il luogo della sua esposizione a conferirle autorevolezza) inneggia (e promette) alla par condicio verso tutti e di tutti verso la legge.
Come tutte le cose umane e in particolare le dichiarazioni o i propositi, a partire dalla antica vicenda prototipale della mitica torre di Babele, anche questa declaratoria è in realtà suscettibile di essere, talvolta, smentita dalle criticità dei fatti e di essere indagata sotto il profilo quantomeno della temerarietà la quale di norma non è lontana dall’imprudenza e non vulnera la buona fede o la buona intenzione.
Il primo dubbio viene, per esempio, dai tempi eccessivamente lunghi nel rendere giustizia, che rende deteriore la posizione dell’innocente e dell’onesto nei confronti di coloro che innocenti e onesti non sono, e dal pendolo di troppo contrastanti giudizi che talvolta fa virare una strumentazione procedurale (appelli) correttamente ideata come guarentigia allo scopo di proteggere, per quanto possibile, il cittadino dal rischio immanente e ineliminabile del ferale errore giudiziario verso la sensazione che l’alternanza sì/no e viceversa sul medesimo fatto non sempre discenda da necessità ermeneutiche: si può ipotizzare di parlare di lavoro mal fatto o insufficiente anche a carico della giustizia o solo del legislatore?
Con tutto il necessario e obbligatorio rispetto per la libertà di giudizio e per l’autonomia del singolo caso, che sono una evidente e ineludibile condizione, il cittadino perbene desidera che la sua eventuale vicenda abbia a snodarsi lungo un percorso bensì complesso, nel caso, sotto la luce dell’interpretazione, ma non mai (al lordo, ovviamente, di quel rischio d’inattendibilità che è fatalmente connaturata agli umani destini, anche giudiziari) per diverse causalità.
Ora tenendo doverosamente conto per esempio, da un lato, dell’enorme lavoro delle Procure volto a promuovere e sovente a realizzare il render giustizia secondo la legge (è sconvolgente pensare a cosa sarebbe successo in questo sfortunato Paese senza l’attenzione di tanti magistrati, a cominciare da chi ha pagato con la vita, e trovo personalmente utile, al riguardo, citare le memorie di un magistrato scomodo: La giustizia non è un sogno, di Raffaele Guariniello) e, dall’altro, del principio per cui l’azione penale è obbligatoria (e governata da persone che rispondono solo alla legge e alla propria coscienza) diviene tragicamente evidente che parlare di quadro sconcertante e inaccettabile, come ha fatto il Presidente, al tempo stesso, della Repubblica e del CSM sembra perfino riduttivo sebbene l’aggettivo inaccettabile (termine sfortunatamente inflazionato fino a ridurlo a maniera) abbia invece letteralmente, in bocca a persona seria e autorevole, un significato definitivo.
Le disvelate manovre indirizzate a pilotare nomine importanti piegate alle ragioni dell’interesse personale o di parte (possibili ritorsioni comprese verso gli avversari) annullano alla radice le ragioni etiche stesse del rendere giustizia e per forza causano il crollo della credibilità (oltre che della sostanza stessa del loro agire) in strumentazioni tecnico-giuridiche che sono poste quali condizioni essenziali per la libertà.
Basta guardarsi appena un po’ intorno, e nemmeno tanto lontano dai nostri confini (geografici e, finora, culturali) per verificare che l’inquinamento della libertà non è una teorica ipotesi di scuola, ma una laida realtà realizzabile ovunque e in fretta.
Rimane forse ancora da valutare, anche e soprattutto affinché la prossima riforma dell’ordine giudiziario di cui ora si parla -e anche, come capita, a ruota libera- non segua le pericolanti orme della (peraltro pressoché continua) riforma dell’istruzione con i risultati di desertificazione ben noti, perché si sia giunti così in basso.
Non diciamo a toccare il fondo perché l’esperienza insegna che molte volte il fondo è ancora più basso: in tale modo, infatti, le civiltà si dissolvono e la storia, che in un modo o nell’altro ne ha pur registrato le cause, non serve mai a nessuno (con buona pace del vecchio proposito, a sua volta ben temerario, di essere maestra di vita).
E il perché dell’inabissamento è forse da ritrovare nel relativismo morale, vuoi religioso vuoi laico, che fa solo del proprio interesse personale o di parte il faro, relativo e ingannevole, per orientare la navigazione.
Per stare terra terra, ai tempi di Mani pulite, una breve stagione di speranza spentasi presto a discapito di un malaffare rapidamente tuffatosi per emergere rinforzato più in là, si parlava di corruttéla in rapporto funzionale all’ambiente sociale ed economico: al contesto (interno ed esterno), che a ben vedere assomiglia più a una diagnosi di terminalità che a una valutazione giuridica.
Attendibilmente la causa è qualcosa di simile: la corruttéla non è solo il delitto più o meno noto in teoria quanto esercitato in pratica, ma è, ancor prima del codice penale (che non per nulla traccia il labile confine del minimo etico patrimonio comune di una data civilizzazione), il disfacimento e la decomposizione morale ed etica degli individui, ovunque essi si trovino e su qualunque scranno seggano.
Non c’è differenza specifica fra i cittadini buoni (la società civile o il buon selvaggio) e la società o classe politica cattiva, perché questa proviene dalla prima che, tra l’altro, la vota e la promuove né fra cittadini e magistrati, poiché anche questi sono parte costituente quella stessa cittadinanza che accoglie sia i buoni sia i grami.
Il primo gradino di ogni riforma è la effettiva ricostruzione della consapevolezza e del senso morale ed etico dell’uomo e della donna in sé, qualunque funzione piccola o grande o grandissima vadano poi a rivestire nella società (vale ovviamente per tutti i consociati anche se per taluni insiemi l’eventuale carenza è particolarmente nefasta): e quindi la ricostruzione della responsabilità anzitutto personale connessa a qualcosa di obiettivamente fermo e doveroso e condiviso che non corrisponde né al proprio io e né al proprio piacere o licenza.
E per meglio dire: questa effettiva ricostruzione non necessita di attendere e d’investire tutto (speranze comprese) solo sulle generazioni che verranno (a quel momento saremmo già, e giustamente, scomparsi come civilizzazione), ma iniziare il processo fin d’ora dando la possibilità di emergere e operare a quanti ancora non vivono di relativismo, ma hanno doti e capacità personali obiettive.
Questo è il merito, sia della questione sia del valore del lavoro di ognuno.
Confidiamo che i riformatori ora in azione per voltare pagina ci facciano un pensiero.
LMPD