APOCRIFA – La mente collettiva della lingua
L’Accademia della Crusca ha recentemente (9 marzo scorso) risposto a un quesito sulla parità di genere negli atti giudiziari inviatole dal Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione.
L’oggetto è più vasto della sola amministrazione della giustizia poiché comprende anche le istituzioni pubbliche e la burocrazia in genere e interessa tutti coloro che pongono attenzione a un uso della lingua che sia rispettoso delle differenze di genere.
Il parere integrale, per chi fosse interessato, è disponibile sul Sito dell’Accademia ed è pubblicato anche nella DOCUMENTAZIONE di questo nostro numero così che si possono qui fare solo alcune brevi riflessioni.
Già la Premessa è intrigante poiché parte dal (nuovo) brevissimo articolo 121 del nuovo codice di procedura civile che titola Libertà di forme. Chiarezza e sinteticità degli atti laddove il medesimo, prima della riforma (Cartabia, d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 149), era ancora più sobrio Libertà di forme e richiama, verso tutti gli operatori, la necessità di scrivere in modo chiaro e sintetico “secondo regole per le quali è necessario un addestramento attento e continuo che ne renda naturale e automatico il rispetto”.
Chiunque abbia la ventura di avere a che fare con le tradizionali (e radicate) forme normo-burocratiche in uso non può che assentire all’autorevole auspicio con malcelata ansia verso qualcosa di nuovo .
Analogo addestramento costante, prosegue l’Accademia, serve per un uso della lingua attento alla prospettiva di genere oggetto, allo stato, di numerose istruzioni amministrative ispirate al modello 1986-87 di Alma Sabatini, femminista del tempo che si rifaceva al modello anglosassone: con il principio base consistente nella volontà di rompere qualunque eventuale asimmetria che distinguesse il riferimento ai due generi, maschile e femminile, intesa come discriminazione.
Dopo qualche ragionevole riferimento al fatto che, da un lato, i principi ispiratori dell’ideologia legata al linguaggio di genere e alle correzioni delle presunte storture della lingua tradizionale non vanno sopravvalutati (perché sono in parte frutto di una radicalizzazione legata a mode culturali) e che, dall’altro, queste mode hanno un’innegabile valenza internazionale, legata a ciò che si potrebbe definire lo “spirito del nostro tempo”, e questa spinta europea e transoceanica non va sottovalutata, la nota dell’Accademia tocca un altro aspetto importante.
Prende infatti atto della connessione tra il tentativo di definire regole di un linguaggio che dovrebbe escludere ogni vera o presunta discriminazione di genere e l’aspirazione più strategica verso un linguaggio ‘politicamente corretto’, tale da restituirci una lingua edenica e immacolata.
Peraltro sottolineando che anche questa aspirazione ha dato luogo a polemiche, specialmente quando ha imboccato la deriva che porta verso la cosiddetta “cultura della cancellazione”, la quale comincia a farsi sentire anche in Italia.
L’Accademia distingue opportunamente fra la libertà della lingua comune nel suo impiego individuale, nella varietà degli stili e delle opinioni oltre che in altre funzioni della comunicazione (familiare, scherzosa, artistica etc.), alle quali occorre garantire la massima libertà, dall’uso formalizzato della lingua da parte di enti, organismi e soggetti pubblici.
E si potrebbe aggiungere, ma esula dall’oggetto del parere specifico, dall’uso nel mondo del lavoro in genere sia pubblico sia privato ove la discriminazione non è certo teorica.
Le indicazioni pratiche comunicate sono (anche) largamente di buon senso.
Evitare le reduplicazioni retoriche come “lavoratori e lavoratrici, cittadini e cittadine, impiegati e impiegate” e simili, ma preferibilmente scegliere altre forme neutre o generiche, per esempio sostituendo persona a uomo, personale a dipendenti etc. Quando questo non sia possibile, il maschile plurale ‘inclusivo’ (a differenza del singolare) risulta comunque accettabile.
Evitare l’articolo con i cognomi di donne. In genere l’omissione dell’articolo determinativo di fronte al cognome si è ultimamente anni diffusa non solo nel femminile, ma anche nel maschile ove era ammesso nel caso di personaggi celebri del passato. Oggi è considerato offensivo non solo per il femminile, ma anche per il maschile. Non si entra nelle ragioni di questa opinione, ritenuta scarsamente fondata. Tuttavia, per quanto estemporanea e priva di motivazioni fondate, l’opinione si è diffusa nel sentimento comune, per cui il linguaggio pubblico ne deve tener conto.
Senza fare parte della Crusca, chi scrive sommessamente ricorda come l’articolo davanti a nomi o cognomi (il Mario, la Ginevra, il Colombo, la Rossetti etc) sia largamente usato (tuttora) nella parlata familial-dialettale tradizionale di molte regioni (Lombardia, Romagna etc) senza che alcuno/alcuna si senta né discriminato né offesa.
Esclusione dei segni eterodossi e conservazione del maschile non marcato per indicare le cariche, quando non siano connesse al nome di chi le ricopre. La lingua è prima di tutto parlata e ad essa la scrittura deve corrispondere il più possibile. Inoltre il rapporto tra scrittura e parola è fissato da una tradizione consolidata nei secoli, che non può essere infranta a piacere.
È da escludere nella lingua giuridica l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato, introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi, per quanto ben intenzionati.
Va dunque escluso tassativamente l’asterisco al posto delle desinenze dotate di valore morfologico («Car* amic*, tutt* quell* che riceveranno questo messaggio…»).
Uguale ragionamento per lo scevà o schwa, l’ǝ dell’alfabeto fonetico internazionale, ma non presente in italiano, lingua che ha solo due generi grammaticali, il maschile e il femminile, per cui lo strumento migliore onde si sentano rappresentati tutti continua a essere il maschile plurale non marcato (cittadini, collaboratori etc) ove si abbia la consapevolezza di quello che effettivamente è: un modo di includere e non di prevaricare.
Del pari è possibile il maschile non marcato quando ci si riferisca in astratto all’organo o alla funzione, indipendentemente da chi in concreto lo ricopra o la rivesta: “Gli atti che hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei ministri” (Cost., art. 89, c. 2).
L’Accademia precisa ancora che il maschile non marcato è ben vivo nella lingua, nell’uso comune: “Tutti pronti?”, “Siete arrivati tutti?”, “Sono tutti sani e salvi!”.
Con il che si torna a sottolineare, ancora una volta, l’importanza fondamentale non solo della forma, ma anche della condivisa cultura non elitaria (la mente collettiva della lingua) sottesa o da sottendere in genere a qualsivoglia tipo di forma per conferirle anche e soprattutto sostanza e contenuto, in carenza di cui la forma rimane o scade nel nominalismo: come la promozione semantico-sindacale del bidello a operatore scolastico senza che sia modificata in meglio la posizione socio-organizzativa del soggetto interessato.
Uso largo e senza esitazioni dei nomi di cariche e professioni volte al femminile. Si deve far ricorso in modo sempre più esteso ai nomi di professione declinati al femminile e dopo un’ampia serie di casi (nomi maschili/femminili; nomi terminanti in -e non suffissati; nomi suffissati etc) si perviene a una consolante osservazione per la quale potranno mantenersi i nomi di professione grammaticalmente femminili, ma validi anche per il maschile, come la guardia giurata, la spia al servizio della potenza straniera, la sentinella, la guida turistica, nonché i nomi grammaticalmente maschili, ma validi anche o solo per il femminile, come il membro e il soprano.
L’Accademia ha fornito, come si diceva, indicazioni non solo di valore, ma anche di buon senso e scisse da esagerazioni o forzature ideologiche.
Perché in effetti l’ansia e la ricerca dell’inclusione formale esplicita in toto, della non pretermissione, della non (possibile sebbene non probabile) offesa verso il singolo pur ignoto, ma che si possa percepire in qualche modo diverso e comunque non rappresentato etc rischia, alla fine, di condurre a una lingua priva di dettagli, difficilmente comprensibile, artefatta e sempre più prossima ai suoni che, in tempi lontani, i progenitori emettevano scendendo dagli alberi e iniziando attraverso le savane la lunga marcia verso l’odiernità.
LMPD