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APOCRIFA – Mala tempora

La frase ‘Sono tempi grami’ ha di sicuro la medesima età del mondo e non è dubbio che anche le popolazioni primitive abbiano avuto in uso, a modo loro si capisce, similari espressioni.

E’ istintivo per l’animo umano concentrare attenzione sul presente e così, considerando la precarietà e il peso del quotidiano che non sfuggì neanche a nostro Signore (Ogni giorno ha la sua pena), il giudizio ne esce in genere critico: tempi grami.

In epoca storica la frase è attribuita a Cicerone il quale, per vero, l’avrebbe completata con una postilla (… e ancora di peggio se ne preparano) del tutto opportuna, dato che la Repubblica si andava dissolvendo nel principato, e involontariamente (forse) anche profetica considerato che il triumviro Antonio, bersaglio rancoroso delle sue Filippiche, l’avrebbe fatto assassinare.

Tanto basta per non correre il rischio, sempre aleggiante e in ispecie nei vecchi, di lodare i tempi passati che, di solito, non vanno poi tanto più indietro, ma coincidono con gli anni della propria giovinezza secondo il noto criterio -codificato da una che se ne intendeva, Mrs. Kimball, di professione maîtresse- in virtù del quale gli anni della gioventù hanno sempre il culo più roseo.

Quindi terapia da adottare, in simili frangenti, e relativi rimedi non sono farmacologici e neanche, come si potrebbe pensare, etilici ora che perfino l’ultima Thule suggerita dalla medicina di bere (almeno) acqua fresca è stata sottratta a livello ministeriale con autorevole ammonimento, ma semplicemente filosofici: ancora un (involontario, si capisce) ritorno al passato epperò in ogni caso diverso da quello un po’ prosaicamente indicato dalla signora americana.

Perché già molti, ben prima di oggi, hanno sperimentato la vanità (non il vizio della civetteria davanti allo specchio e neanche quella vanità tradizionalmente rappresentata in pittura dal lucido teschio fra nature morte o putti addormentati), ma proprio la vanitas vanitatum o havel havalim in senso originale biblico, come espresso da Ecclesiaste-Qohèlet e cioè vuoto senza rimedio (sentenzia Marco Manilio astrologo: essendo nati, moriremo: nascendo morimur).

A meno di non ricordarsi, nel caso, di qualche parola divina secondo il suggerimento della Imitazione di Cristo.

E così, parlando di noi, a fronte della vanità di un Paese che non riesce ad andare oltre alle baruffe romane fra la Meloni e la Schlein, governo e opposizione, segretari e sottosegretari, ventriloqui e comparse etc mentre le marionette del mondo, fuori dalla Città eterna, fanno scivolare verso il Yalta bis zucche (del genere Cucurbita) oscenamente addobbate per farle sembrare carrozze e spinte da figuri di dubbia reputazione e di ancor più dubbia coscienza (ahi, il significato nascosto delle parole), ecco che ci si trova a confrontarsi con sperimentati esercizi atti a dare senso e a nobilitare l’attimo fuggente.

Gli antichi in genere pensavano alla fragilità e insicurezza della vita (memento mori) e così la Controriforma.

D’altra parte fra malattie, carestie, pestilenze, tiranni, briganti, invasioni, tradimenti, sommosse, violenze, guerre etc non c’erano, anche a impegnarvisi, molte altre alternative.

E la (apparentemente) opposta visuale, memento vivere, trionfalmente individuata poi come grande scoperta, a esempio, da Goethe è pur sempre prospettiva del medesimo ragionamento sebbene di segno diverso: considerato che la vita è comunque la stessa e con le stesse caratteristiche di finitezza e precarietà, può esserle conferito valore sia vivendo ogni attimo come l’ultimo sia vivendolo, il medesimo attimo, come il primo: il risultato non cambia né cambia l’intensità spirituale che questa acuita e consapevole (perché va cercata e costruita in se stessi) sensibilità conferisce per ciascuno all’attimo fuggente (Augenblick).

Pensiero non dissimile è stato rappresentato da Pierre Hadot in un libro Ricordati di vivere, Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali del 2008 con l’intento, peraltro tipico dell’Autore, di trasmettere il valore della filosofia non tanto come risposta a domande o ricerca di sistema valido (Ipse dixit), ma come aiuto nella vita e nello starci dentro tutti i giorni.

Uguale era l’intento di Epicuro (in prosieguo ampiamente frainteso e tartassato), il cui nome già la dice lunga significando ‘soccorritore’, volto ad allontanare la paura della morte dai miseri umani tapini (termine che significa ‘abbassati a terra’) i cui orizzonti spirituali non oltrepassavano divinità conformate alle peggiori e più ignobili caratteristiche umane.
Hadot presenta il ricorso a esercizi spirituali, chiamiamoli laici, noti alla filosofia antica che sono il rovescio della stessa medaglia rispetto a quelli religiosi maggiormente conosciuti e sottolinea in tale modo la sostanziale unicità dell’animo umano a prescindere dalle prospettive da cui lo si guarda e dalle definizioni.

E proprio considerare la trasformazione del pensiero di Goethe è istruttivo.
All’inizio egli considera il ‘presente’ umile e vile, stretto come gli appare fra l’ideale, un ‘futuro’ destinato ad appagare, e la nostalgia, un ‘passato’ glorioso, e quindi la mente e il cuore sono sempre rivolti altrove, lontano e non mai vicino all’attuale.

Tramite poi la scoperta, nel suo viaggiare in Italia, di affreschi romani che mostrano, così egli scopre ed entusiasmandosi interpreta, come fermate nel tempo la bellezza e la gioia di un (ogni) singolo attimo di vita, ‘del’ singolo attimo rappresentato, passa alla convinta rivalutazione del valore del presente.

Come già Epicuro, per cui ogni giorno è unico e irripetibile, e lo Stoicismo per cui il dovere morale è in diretta relazione con il vivere il presente.
Agostino, con lineare logica, sintetizza il concetto in uno schema quasi brutale: il passato non esiste più, perché è trascorso, il futuro ancora non c’è, perché deve venire e nessuno può essere certo che (quantomeno per lui stesso) ci sarà, onde altro non esiste che il presente.
Per gli Stoici, anzi, l’istante è proprio il punto di contatto dell’uomo (in particolare se visto da parte di quell’uomo che corrisponde al se stesso agente) anche con la realtà del mondo: un essere finito e limitato e al contempo anche parte (vivente) dell’infinito.

Modo diretto e di una qualche efficacia per camminare anche e soprattutto alla ricerca di Dio.

Così forse, per qualcuno almeno di questi motivi, anche oggi si può al pari di antenati e genitori guardare al presente come a una relazione tanto istantanea quanto necessariamente dinamica e perciò cammino di (personale) scelta, consapevolezza e responsabilità.

E facendo ciascuno la propria parte in armonia con il possibile di ciascun altro con cui ci sia relazione: guardando il cielo e scambiando speranza.
In questo modo si potrà anche giudicare come meritano, cioé alla stregua di quello che sono e di come devono essere interpretate, sia le malefatte dei grandi della Terra che, a loro empia vergogna, da idolatri bigotti violano Decalogo, etica e diritto sia le idiozie che raccontano e fanno diffondere dai loro reggicoda mentendo da cialtroni.

E si potrà, senza farsi impaurire, trarne anche qualche insegnamento da ritenere e, possibilmente, da tramandare in occasione di altri tempi grami futuri che non mancheranno certo.

Dare forma agli ectoplasmi della tenebra non è progresso e neanche sperimentazione, ma allevamento di mostri e, con buona pace di Darwin, se a differenziarsi dal quadrumane ringhiante e omicida ci si mettono anni, a ritornare a esserlo, e meglio di prima assai per bagaglio di esperienza, ci si impiegano solo pochi giorni.

Ancora a proposito dell’attimo fuggente, in un film del 1989, L’attimo fuggente di Peter Weir, uno dei protagonisti (il professore) dice: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è bello: noi leggiamo e scriviamo poesie perché facciamo parte della razza umana e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento, ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore… queste sono le cose che ci tengono in vita.

LMPD

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