APPROFONDIMENTO – Potenza dell’arte combinatoria
L’appunto seguente è tratto dal libro, del quale raccomando la lettura: “Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza” di Carlo Rovelli, un fisico teorico che tratta idee originali in una prospettiva ampia e coerente in cui la scienza si intreccia e si integra con molti altri interessi.
In particolare, vediamo la sorprendente potenza dell’arte combinatoria, che si annida nella recondita semplicità dell’assunto.
La leggenda si trova nel Libro dei Re di Ferdowsi, il massimo poeta persiano. Il sapiente Sissa Ibn Dahir fa dono a un re indiano del gioco degli scacchi. Il re, ammirato dalla eleganza e potenza logica di tale gioco, chiede al sapiente come possa ricompensarlo e il sapiente risponde: “Dammi un chicco di grano per la prima casella, due per la seconda, quattro per la terza, e così via raddoppiando fino all’ultima”.
Il re, stupito da tanta modestia, ordina illico et immediate di esaudire la richiesta. Grande la sua sorpresa quando i suoi attendenti gli riferiscono, non senza imbarazzo, che tutti i granai del regno e perfino l’insieme delle risorse del nostro pianeta non bastano neanche lontanamente a soddisfare tale richiesta.
Infatti solo per l’ultima casella serve un numero di chicchi pari a 264, ossia 18 miliardi di miliardi che, a un grammo per chicco, fanno diecimila miliardi di tonnellate di grano.
La leggenda è nota anche a Dante, che la cita nel XXVIII canto del Paradiso: “Ed eran tante, che ‘l numero loro, piu’ che’l doppiar de li scacchi s’immilla”.
Democrito di Abdera, padre della teoria atomistica ripresa secoli dopo da Lucrezio, sostiene che sono le combinazioni degli atomi (le particelle indivisibili) a generare la complessità della natura, così come le combinazioni delle poche lettere dell’alfabeto possono generare commedie o tragedie, poemi epici o storie buffe.
Nella scienza stupiscono non solo il numero delle combinazioni, ma anche le varietà: tutto ciò che vediamo in natura, galassie, pianeti, montagne, è generato da una ventina di particelle che interagiscono attraverso poche forze elementari. Ma lo spazio di ciò che può esistere è ancora sterminatamente più grande di ciò che esiste.
Una proteina è una sequenza di alcune decine di aminoacidi: le combinazioni possibili sono talmente numerose che, anche producendo una proteina diversa ogni secondo, l’intera vita dell’universo non basterebbe per produrre una piccolissima parte di tutte le proteine possibili.
Il nostro cervello contiene 100 miliardi di neuroni, ogni neurone ha alcune migliaia di sinapsi, le combinazioni possibili sono cifre con esponente pari a centinaia di miliardi di miliardi, l’immenso spazio del pensabile di cui abbiamo esplorato solo un angolino infinitesimo.
Mi punge ora vaghezza di annusare il pensiero di Nagarjuna, un filosofo vissuto in India 18 secoli fa, centrato sull’idea che nulla abbia esistenza in sè, ma tutto esista solo in relazione a qualcos’altro.
Il termine usato per questa mancanza di essenza è “vacuità” (sunyata).
Le cose sono vuote, non hanno realtà autonoma, esistono grazie a, in funzione di. “Quello che esprime il linguaggio non esiste. Il cerchio dei pensieri non esiste”. Non c’è insomma alcuna essenza ultima da comprendere: “Io” non è altro che l’insieme interconnesso dei fenomeni che lo costituiscono, ciascuno dipendente da qualcos’altro.
L’essenza è assenza: Dio, spirito, materia, soggetto, coscienza, energia, linguaggio.
Cercavo un’intuizione unificante per scienza, spiritualità, parapsicologia e mi sono imbattuto in un pensiero radicalmente relazionale dove Eraclito, Nietzsche, Heidegger fanno la figura di semplici dilettanti, alle prese con una gigantesca illusione.
Vien da chiedersi se almeno gode di esistenza lo stesso messaggio che ha ispirato quel filosofo: ebbene, no, anche la teoria della vacuità è vuota e convenzionale.
Nessuna metafisica sopravvive.
Secondo Carlo Rovelli tutta la fisica pullula di nozioni relazionali, mentre naufraga nella complessità della quantistica dei campi e della relatività generale.
Tuttavia tale antifondazionalismo è forse utile per ripulire filosofie e scienze: è per l’assenza di ogni assoluto che la vita ha senso.
Sono idee che intersecano la nostra cultura smaliziata aprendo spazi di pensieri nuovi.
Per attraversare il fiume del cambiamento si deve abbandonare il sè “familiare” e prevedibile di sempre (collegato a pensieri, scelte, comportamenti e sensazioni che si ripetono immutate) ed entrare in un futuro ignoto, vuoto e imprevedibile.
Il cambiamento è la denaturazione del circuito innescato e sedimentato da anni di pensieri inconsci sempre identici, è la morte biologica della vecchia personalità, la fenice che risorge dalle sue ceneri attraverso la plasticity brain, la metamorfosi del vecchio io.
Federico Ferraris, ingegnere e ricercatore