L’APPROFONDIMENTO: Chi è vittima di chi?
Il 4 e 5 luglio scorso ha avuto luogo a Bruxelles il terzo Congresso europeo di psicoanalisi sul tema: “Vittima!”. Da notare il punto esclamativo nel titolo, che segnala non solo la percezione di un allarme rispetto a un tema che sta assumendo una diffusione sociale preoccupante, ma anche il senso di sorpresa che si accompagna al trauma subito dalla vittima. Oltre alle ferite fisiche sofferte da chi è stato oggetto di aggressione o coinvolto in qualche situazione catastrofica, si tratta infatti di curare lo strappo, la drammatica lacerazione prodottasi nella continuità della sua vita psicologica.
Molti i casi clinici presentati, relativi alle diverse possibilità di trattamento da parte della psicoanalisi delle vittime di violenza, di choc, di incidenti, e salienti alcune linee di fondo emerse. La prima è il senso di colpa della vittima. Alcuni nostri colleghi spagnoli hanno avuto modo di trattare diverse persone coinvolte nell’attentato alla stazione di Atocha a Madrid l’11 marzo 2004.
Sono noti, nelle situazioni post-traumatiche, il senso di colpa del sopravvissuto e la tendenza a ritornare mentalmente al momento dell’incidente, a ripeterlo all’infinito nei sogni e nel ricordo. Quel che però i nostri colleghi spagnoli hanno potuto osservare era come le idee ripetitive tornassero non ai fatti realmente successi, ma a quel che invece non era accaduto: la strada non percorsa che avrebbe portato in un’altra direzione da quella dove si è poi verificato l’attentato, la persona vista giacere nel proprio sangue che non era stato possibile salvare, l’incontro mancato con l’amico che si era poi trovato nel luogo dell’esplosione, e così via.
Il senso di colpa della vittima è comunque trattabile, perché presenta una situazione in cui il soggetto assume un atteggiamento responsabile e attivo. Diverso è quando la posizione di vittima genera invece risentimento e rivalsa, che è difficile da elaborare. Su questo piano infatti un caso particolarmente significativo è stato quello presentato dalla dott.ssa Marie-Claude Lardeux-Majour. Si trattava di un uomo incarcerato per terrorismo, cittadino francese proveniente dall’immigrazione, socialmente e professionalmente ben integrato, con una solida famiglia, la cui vita era stata lineare fino al momento del suo incontro con il radicalismo islamico, che lo porta alla Jihad e al terrorismo. Nel corso delle sedute con la dott.ssa Lardeux-Majour è apparso che il passaggio all’atto terrorista, compiuto in nome del Profeta, non era motivato tanto dalla fede quanto dalla disperazione. Sono così emerse le strategie d’indottrinamento che hanno fornito a quest’uomo risposte già pronte, senza bisogno di elaborazione, ai conflitti interiori che lo dilaniavano. Nel momento in cui diventare padre lo poneva infatti di fronte a un abisso d’angoscia, ha fatto leva sui comandamenti coranici trovati in internet, per essere uomo e padre secondo il dettato dell’Islam.
Interessante poi il modo in cui quest’uomo, che si viveva come un paria, si identificava con le vittime che gli venivano mostrate dai suoi catechizzatori: bambini mussulmani mutilati dai bombardamenti occidentali, militanti jihadisti picchiati e ridotti alla fame, villaggi arabi devastati dalla guerra.
Il valore del caso sta nel mostrare come la posizione di carnefice, autore di attentati terroristici che producono numerose vittime, passi preliminarmente attraverso l’identificazione con la posizione di vittima. In fondo chi è vittima e chi è carnefice, alla luce di quel che emerge nell’inconscio? Potremmo dire, con i versi memorabili di Baudelaire: “Sono la ferita e il coltello/ Sono il mantice e la guancia/ Sono le membra e la strada/ E la vittima e il carnefice”.
L’epidemia di vittimismo che si sta diffondendo nel mondo occidentale appare allora, in questa prospettiva, piuttosto rischiosa. Il procedimento analitico va in direzione di decostruire quest’identificazione con la vittima, favorendo una posizione attiva, e non semplicemente reattiva. Il soggetto può trovarsi di fronte a fatti che lo sovrastano, che superano le sue forze, ma quel che fa del trauma un fattore patogeno è subirne passivamente le conseguenze anziché farlo entrare in un processo attivo di rielaborazione. Si tratta, in un modo o nell’altro, di darsi i mezzi per essere all’altezza dell’evento. Come dicevano gli antichi: fata nolentem trahunt, volentem ducunt.
Marco Focchi
Istituto Freudiano, Milano