HomeDialogandoNewsletterApprofondimentoL’APPROFONDIMENTO – Indice h

L’APPROFONDIMENTO – Indice h

Di recente è stata pubblicata la classifica mondiale dei migliori cento ricercatori in ambito medico. La classifica si basa sull’indice h, che fornisce un’idea di quanto vengono citati gli articoli di un ricercatore e quindi di quanto grande è l’influenza che il ricercatore ha avuto nel suo settore scientifico.

Come si legge questo indice? Se un ricercatore ha un indice h pari a 10 significa che – anche se ha scritto centinaia di articoli – solo 10 suoi lavori sono stati citati almeno 10 volte da altri articoli scientifici. Se l’indice h è 347 (come nel caso del primo classificato, Walter C. Willett) significa che il ricercatore ha scritto 347 lavori che sono stati citati almeno 347 volte. Andando nel dettaglio della produzione di Willett, si scopre che mettendo insieme questi 347 lavori ad altri 2.294 che ha scritto (e che hanno avuto meno di 347 citazioni ciascuno), lui è stato citato in totale 626.421 volte.

La prima riflessione che possiamo fare scorrendo la classifica è legata alla provenienza geografica dei migliori ricercatori: ben 82 provengono dagli Stati Uniti (70) e dal Regno Unito (12). Solo 11 ricercatori lavorano in paesi non anglofoni e – tra questi – due sono italiani. Il vantaggio competitivo della lingua inglese nella ricerca medica attuale ricorda quello dell’italiano nella storia secolare della Chiesa.

La seconda riflessione riguarda la straordinaria produttività scientifica dei cento ricercatori in classifica: basta pensare che il “peggiore” tra di loro ha scritto 888 lavori raggiungendo un indice h di 186 e un numero complessivo di citazioni pari a 127.093.

Se facciamo l’ipotesi che per scrivere un buon articolo scientifico – tra effettuazione della ricerca e stesura del testo – sia necessario almeno un mese, il centesimo ricercatore, per scrivere i suoi 888 lavori, avrebbe avuto bisogno di 74 anni (senza nemmeno un giorno di vacanza) e a Willett sarebbero serviti addirittura 220 anni di ininterrotto lavoro per produrre tutti gli articoli che ha pubblicato.

Naturalmente non è stato così, perché esiste un formidabile moltiplicatore della produttività scientifica che è il lavoro di squadra: non a caso la terza e la quinta posizione in classifica sono occupate da ricercatori che lavorano ad Harvard insieme a Willett.

Un secondo moltiplicatore – per la verità meno virtuoso – è dato dalla parcellizzazione e dalla ridondanza dell’informazione scientifica contenuta negli articoli pubblicati: oggi Willett potrebbe sicuramente condensare in poche decine di lavori ciò che ha scritto negli oltre duemila articoli prodotti durante la sua fortunata carriera.

Va peraltro riconosciuto che la continua condivisione dei risultati della ricerca – anche parziali – consente di far progredire più rapidamente la scienza, perché permette a più gruppi di lavoro di utilizzare immediatamente ogni piccolo avanzamento che viene pubblicato in letteratura.

Se Darwin non ci avesse pensato vent’anni a pubblicare “L’origine delle specie”, forse altri ricercatori avrebbero potuto accelerare la ricerca in campo evoluzionistico utilizzando i suoi dati. Ma Darwin non aveva dubbi al riguardo e affermò: “ho guadagnato molto grazie al mio ritardo nella pubblicazione: dal 1839 – quando formulai con chiarezza la teoria – al 1859. E non ci ho perso nulla”.

Oggi invece c’è chi ha molto da perdere nel dilazionare la pubblicazione della ricerca: innanzitutto l’editoria scientifica (che in campo medico è un’industria con un fatturato di oltre 10 miliardi di dollari l’anno e con profitti a due cifre), ma anche gli stessi ricercatori la cui carriera è strettamente legata al numero di lavori e di citazioni che riescono a mettere in curriculum.

Si è quindi innescata una forma di “rat race” non dissimile da quella presente nei mondi dello sport e dello spettacolo, dove ci sono tantissimi professionisti in competizione, c’è una florida industria al loro servizio e ci sono le star da idolatrare. E a volte sembra che in questa “corsa dei topi” l’advancement of research rischi di lasciare il posto all’advancement of self.

Davide Caramella

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