L’APPROFONDIMENTO: Perché si fanno saltare?
Venerdì 13 novembre ero a Parigi per partecipare a un Congresso di psicoanalisi che avrebbe dovuto avere luogo il giorno seguente sul tema “Faire couple”. Il Congresso è stato ovviamente annullato per ragioni di sicurezza, come tutte le manifestazioni pubbliche quel giorno. I boulevards deserti raccontavano di una Parigi come non avevo mai visto. I colleghi che ho incontrato sabato mattina erano sbigottiti, smarriti. Non avevano risposte su quel che era successo, e i responsabili politici, sentiti in tutte le televisioni, parlavano, senza ambagi, di guerra.
Nel momento in cui la redazione di questo giornale mi chiede un’analisi sulle motivazioni del terrorismo suicida, rivedo l’interrogativo inevaso nel volto dei miei colleghi parigini, e in quello di noi tutti. Possiamo tentare di porci alcune questioni, più che formulare risposte.
Per un verso, se consideriamo che effettivamente, come dichiarano i responsabili governativi francesi, siamo in guerra, la psicologia della guerra è stata studiata. In questo caso però non ci è di molto aiuto, non per questa guerra, una guerra senza fronti, o con fronti estremamente complessi, dove non è lineare neppure lo schieramento tra amici e nemici (Putin bombarda i ribelli sostenuti dagli americani, l’Arabia Saudita segretamente finanzia i jihadisti che contrasta, i curdi sono bombardati dalla Turchia che combatte contro i loro stessi avversari). Si tratta poi di una guerra dove i combattenti hanno motivazioni fortemente dissimmetriche, e su uno dei due fronti troviamo persone aliene da quello che è usualmente uno degli interessi principali dei soldati in battaglia: salvarsi la vita.
Non si tratta di una novità: chiamiamo infatti kamikaze questi militanti che si fanno saltare con delle cinture esplosive, usando lo stesso nome con cui si chiamavano i piloti giapponesi che nella seconda guerra mondiale si lanciavano con i loro aerei contro le navi americane.
Una prima chiave di lettura per capirne le motivazioni consiste nel considerare il quadro sociale da cui questo tipo di combattenti proviene.
Nel nostro modo di pensare non ci è estranea l’idea di un eroismo che si spinge fino all’autosacrificio. La storia stessa del nostro Risorgimento è piena di figure sacrificali. Ma il sacrificio è, nella nostra mentalità, il gesto estremo dove l’atto avviene a caldo, in una lotta in cui lo spasmo che spinge alla vittoria elide ogni altra considerazione. Non è mai pianificato a priori. Nella strategia terrorista invece l’autosacrificio fa parte integrante dell’azione, vi è preliminarmente e freddamente incluso. La motivazione religiosa è solo un aspetto della spiegazione: la storia del giardino delle vergini incanta solo noi occidentali, che la interpretiamo in base ai nostri canoni mondani, e alla nostra valutazione del sesso e della donna.
Più importante mi pare notare che sia per i kamikaze giapponesi della seconda guerra mondiale, sia per gli attuali kamikaze jihadisti, il tessuto sociale che c’è alle spalle è il contrario di quello fondato sull’individualismo in cui noi viviamo. Quel che noi chiamiamo fanatismo è il riflesso di un mondo in cui l’individuo non conta nulla di per sé, perché inserito in un quadro olistico in cui non esiste neppure l’idea di salvarsi da solo. Salvare la comunità, l’osservanza religiosa, l’Imperatore, questo è vitale, e tolto questo la vita non è nulla.
Nei film di Ozu degli anni Cinquanta questo tema è presente sullo sfondo della rappresentazione di una società che, occidentalizzandosi, sta incorporando i virus dell’ex nemico americano, il quale ha laicizzato il governo dei vinti e ha tolto lo statuto divino all’Imperatore.
Nella cultura integralista del jihadismo il mondo ha un proprio centro nella volontà trascendente a cui tutto è devoluto. La volontà individuale non conta nulla di fronte alla grandezza di un principio ultraterreno, di un centro che in Occidente si è disgregato a partire dall’Illuminismo. Ma non dimentichiamo che a Parigi, nel 1766, quando lo spirito dei Lumi già aveva già preso saldamente piede nel nostro mondo, il Chevalier de La Barre, un aristocratico francese, fu giustiziato, non ancora ventenne, per il gesto, considerato blasfemo, di non essersi tolto il cappello di fronte a una processione. Prima dell’esecuzione gli vennero spezzate le articolazioni, fu decapitato, e il suo corpo fu bruciato.
Quel che dovremmo spiegarci, per i kamikaze di oggi, non è da dove venga tanta violenza, ma perché si facciano esplodere trascinando l’autore nel proprio gorgo insieme alle vittime. Per Andreas Lubitz, il pilota suicida della Germawings, in un articolo precedente avevo parlato di psicosi. Per i kamikaze questa spiegazione non basta, e sul piano clinico dovremmo avere molti più elementi per poterne dire qualcosa in modo dettagliato. Siamo solo all’inizio di una fase in cui, per il momento, le domande prevalgono sulle risposte. Ma è importante porsi le domande giuste.
Marco Focchi
Istituto Freudiano, Milano