L’APPROFONDIMENTO – Publish or perish
Le pubblicazioni scientifiche nascono per l’esigenza di condividere i risultati della ricerca o per promuovere la carriera dei ricercatori e arricchire i bilanci dell’industria editoriale?
Una lettura attuale del noto detto anglosassone publish or perish sembrerebbe orientare più per la seconda ipotesi, nel senso che le pubblicazioni sono necessarie per la sopravvivenza accademica dei ricercatori e per la sopravvivenza economica delle aziende di editoria scientifica.
I reciproci interessi dei ricercatori e dell’industria convergono nell’impact factor, un indicatore bibliometrico che viene considerato direttamente proporzionale alla qualità scientifica della rivista. Per calcolare l’impact factor viene utilizzato il numero delle citazioni, analogamente al calcolo dell’indice h. La differenza è che l’indice h ci dà un’idea del numero di citazioni del singolo ricercatore mentre l’impact factor ci dice quanto è citata una rivista.
La convergenza di interesse tra ricercatori e industria editoriale consiste nel fatto che, da un lato, gli autori preferiscono pubblicare i loro articoli su una rivista di alto impatto perché essendo più prestigiosa e più letta consente loro di avere più citazioni, dall’altro, le riviste vogliono attrarre gli articoli che abbiano migliori probabilità di essere citati per mantenere o aumentare il proprio impact factor.
Nel complesso, questo sembrerebbe un sistema duramente competitivo ma efficiente. Un sistema modellato sulla spietata legge di mercato, ma che alla fine è capace di far emergere la buona ricerca a scapito di quella meno buona.
Il problema è che sono contemporaneamente in azione due meccanismi (fortemente condizionati dal comportamento umano) che incidono in modo decisivo sulla possibilità che un articolo ha di essere pubblicato e quindi di essere successivamente citato. Questi due meccanismi sono la peer review e le politiche editoriali.
La revisione da parte di colleghi (peer review) consiste nella valutazione imparziale di un articolo affidata a ricercatori di grande esperienza e all’oscuro dell’identità degli autori. In teoria la peer review dovrebbe aiutare gli autori a migliorare il loro lavoro scientifico e le riviste a pubblicare i lavori migliori. Nella pratica la peer review può avere un ruolo non marginale nel distorcere il mercato delle citazioni.
Anche la scelta delle politiche editoriali delle riviste scientifiche (che viene solitamente affidata a ricercatori con alto indice h e che rivestono importanti ruoli accademici o societari) offre l’opportunità di distorcere il mercato delle citazioni, facendo lievitare l’impact factor di una rivista e di conseguenza gli indici h degli autori che vi pubblicano.
Non è certo sorprendente che le citazioni di articoli scientifici (in fondo simili a like sui social media) siano diventate al tempo stesso così importanti e così manipolabili: infatti è sul numero di citazioni che si costruiscono le carriere universitarie dei ricercatori, la possibilità di vincere progetti finanziati, il prestigio degli atenei, i profitti dell’industria editoriale e sanitaria.
Del resto, anche nella ricerca sta emergendo il fenomeno dell’estrema polarizzazione tra l’1% e il restante 99%. Un esempio è riportato in un recente articolo che riferisce come l’1% degli oncologi statunitensi riceva il 37% dell’intero ammontare dei finanziamenti che l’industria farmacologica versa ai 10.620 oncologi attivi negli Stati Uniti.
Serve aggiungere che un quarto di quegli oncologi appartenenti all’1% sono anche membri di comitati editoriali di riviste scientifiche?
Davide Caramella