Parlare di omosessualità a scuola: un tema complesso
DIALOGANDO, n. 67, gennaio 2015 – Conoscere e capire il concetto e la realtà dell’omosessualità creando spazi di riflessione in ambito scolastico è un’occasione preziosa. In un luogo dove le generazioni si incontrano e scambiano modelli, è possibile costruire interventi di sensibilizzazione, integrazione ed educazione all’apertura e al rispetto.
Veniamo a un fatto avvenuto a Treviso qualche mese fa. Dopo la proiezione nelle terze classi di una scuola media di un film sull’omosessualità, 120 genitori indignati protestano scrivendo al sindaco della città. Lamentano di non essere stati informati e dichiarano che diversi ragazzi sono rimasti sconvolti da esplicite scene di masturbazione tra giovanissimi mostrate nel film. Molti genitori temono l’equiparazione della famiglia tradizionale e della famiglia formata da coppie gay, anche se nel film non si fa alcun riferimento diretto a questo tema. L’iniziativa, organizzata dalla ASL, era presentata dagli esperti come “educazione affettiva”.
Appare subito chiaro come il tema si muova attraverso scenari psicologici, sociali e politici di profonda complessità.
Tornando alla scuola, stavolta in ambito generale, non sono rare storie di intolleranza ed emarginazione, con insulti detti dentro le classi, scritti sui muri degli edifici scolastici, o in rete. E non solo tra compagni. Anche qualche insegnante non si è risparmiato ambigue insinuazioni. Per alcuni ragazzi tutto ciò può essere particolarmente difficile, perché non si sono ancora aperti ai loro genitori e questi ultimi non si sono accorti che il figlio o la figlia sono omosessuali. Tra i dirigenti scolastici vi sono discrepanze: c’è chi promuove iniziative e chi addirittura vieta la distribuzione di semplici questionari conoscitivi sul tema dell’omosessualità. Com’è possibile educare i nostri giovani a un’apertura all’informazione senza preconcetti se per primi gli adulti sono in difficoltà ad affrontare il tema in tutti i suoi risvolti?
D’altronde, anche in campo psichiatrico e psicologico si è fatto un lungo percorso prima di arrivare, con l’edizione del DSM III R del 1987, a non considerare più l’omosessualità come una malattia. E non è stato un percorso lineare: il dott. Robert L. Spitzer, che si era fatto promotore delle istanze della comunità omosessuale americana nella preparazione dell’edizione del DSM sopra citata, nel 2003 sostiene l’opportunità di “curare” l’omosessualità con la terapia riparativa, rivolta a chi è motivato al cambiamento. Non è un caso che in quegli anni la questione del matrimonio tra omosessuali e dei diritti civili delle coppie gay cominciasse ad agitare le politiche di alcuni stati americani, proprio come sta succedendo ora in Italia. Per dovere di cronaca, Spitzer nel 2012 ritratta questa posizione, per tornare a quella che lo vide protagonista della promozione dell’identità omosessuale come possibile identità sessuale e non come malattia o perversione.
Le principali correnti in ambito psicologico ritengono oggi che l’omosessualità non sia innata, ma che sia un percorso evolutivo della personale identità sessuale, costruito attraverso influenze ambientali, cioè familiari, relazionali e sociali, e attraverso processi intrapsichici. Non è una malattia, quindi, ma una variante possibile di sentire ed esprimere la propria sessualità e identità.
La scuola, come istanza di educazione e formazione, ha quindi un ruolo cruciale nel porgere un’adeguata riflessione sul tema. Il punto però è che la famiglia è almeno altrettanto importante. È auspicabile quindi un lavoro sinergico, che coinvolga anche gli psicologi, e che si presenta come lungo e complesso, ma ineludibile.