L’APPROFONDIMENTO – Notte di Natale
Di tutte le (splendide) natività immaginate dall’arte, l’unica non mai raffigurata è forse quella accaduta: l’irruzione notturna dei pastori nei pressi di Bethléem provoca fra i pacifici e sospettosi abitanti, già da tempo ritiratisi nelle rispettive case e capanne, uno scompiglio causa di grande affanno.
Dai viottoli al limitare del paese privo di luce se non quella della luna e delle stelle lontane filtra allarme per rumori precipitosi di passi e di voci rauche e sgarbate che s’intrecciano dalla petrosa campagna, in mezzo al latrare isterico e senza requie dei cani impazziti.
Si accendono fiaccole e lumi e subito echeggiano incerti richiami fra quanti sono stati svegliati di soprassalto: non si sa né si capisce cosa stia, là fuori, succedendo.
Poi alcuni si fanno coraggio ed escono armati di bastoni e forche e chi, fra i paesani, apre le porte nel buio ecco che, tutti gli aventi ascoltato si meravigliarono riguardo le cose dette dai pastori a loro¹, poiché odono parole mozze e ansimate di quegli zoticoni che narrano di cose straordinarie fino all’incomprensibile e terrorizzanti almeno come essi che le pronunciano.
I taciturni pastori sono insolitamente loquaci come massaie al mercato e nella confusione che fanno assalgono farfugliando coloro che incontrano con l’ansia di raccontare: fiamme e luci abbaglianti nel cielo e fuoco avvolgente nel deserto e sulla terra (mentre ora è ovunque buio pesto) là dove essi, gli irsuti, come ogni notte vegliavano veglie a guardia delle pecore, apparizioni di ignote e paurose figure mai prima vedute che non toccavano nemmeno la sabbia coi piedi, ma si muovevano nell’aria e qualcuno arriva perfino a gridare, senza evidentemente sapere quello che dice, di un angelo dell’Altissimo e di altri molti angeli ancora che illuminavano le profondità del cielo e con il loro bagliore sovrastavano, cancellandola, perfino la luce della luna piena e altri ancora di quella banda scomposta gridano più forte di avere udito parole di chi sa chi, di un annuncio di nascita avvenuta in quel luogo, di un salvatore o proprio del messia, di un neonato in una mangiatoia da andare in tutta fretta a vedere.
Il quale neonato, invero, sembra essere l’unica normalità di quella notte travolta dall’esagitazione ed è un bel piccolo che la madre (una giovanissima montanara, per chi la intravede in fondo alla piccola stalla dove la coppia forestiera e senza nome che chi sa da dove viene si è rifugiata) ha fasciato con cura, avendo tagliato a una a una le bende dal rotolo di tela di lino² portato da casa, e deposto nella scricchiolante paglia pulita di una mangiatoia di pietra e di legno, buon posto per assicurargli nel silenzio della notte riparo e calore³.
I pastori sono invasati, in quella loro rumorosa e insana eccitazione che pretende (cose dell’altro mondo) di riferire parole dell’Altissimo, e ai paesani toccano batticuore, angoscia, timore, incredulità, stupore, meraviglia, curiosità, voglia di presto ritornarsene a letto: sia a causa dei minacciosi figuri avvolti nelle loro pelli maleodoranti che ancora vagano scomposti per i viottoli del paese e ansimano come i loro cani da gregge, in quella notte gli unici a non abbaiare a differenza di quelli del paese, sia del freddo sempre più pungente che dall’alto del cielo del plenilunio trapunto di stelle cala a cospargere di umida guazza il deserto che avvolge incombente.
Sullo sfondo il piccolo che, nonostante il chiasso e lo scompiglio, dorme placido vicino alla madre sulla paglia ben sistemata dalla quale emana ora nell’aria gelida, chi sa come, profumo di campi fioriti e di sole. Essa, avvolta in un pesante mantello impolverato troppo grande per lei, se ne sta muta, ma ben attenta a vegliarlo con quei suoi grandi occhi luminosi cui nulla sfugge spalancati nel buio, rotto a tratti dall’improvviso crepitante baluginare di qualche torcia, assieme al marito, alto e un po’ ricurvo come un boscaiolo abituato a portare tronchi sulle spalle. Nemmeno lui, il timido capo famiglia, sa bene cosa fare: imbarazzato balbetta fra la folta barba scura poche parole della sua aspra parlata galilea per dire, senza rivolgersi a nessuno in particolare, che sono giunti a Bethléem a causa di doveri di famiglia e si guarda paziente le grandi e ruvide mani ora inoperose.
Ambedue incerti e spaesati hanno grande preoccupazione e timore, anche che il bimbo si desti dal suo placido sonno, e proprio non vedono l’ora di rimanersene di nuovo soli con lui, come prima di tutta quella imprevedibile e non spiegabile confusione.
Myrhiàm è forse (un po’) meno agitata di Yohsifyàh poiché non è per lei il compito di proteggere la famiglia e potendo rimanere più attenta del marito ascolta gli spezzoni di frasi che raccontano della luce, delle visioni, di una nascita: non capisce, ma ripone comunque tutto nella sua memoria come si addice a una donna di casa e a una madre che non getta mai nulla.
Anche per qualcuno degli abitanti di Bethléem più curioso, finisce che, passata la paura (oltre che il sonno) e visto che non c’è pericolo, l’imprevisto appaia ora come una novità apprezzabile in un luogo dove non accade mai niente.
Ora si è alzato il vento da oriente e la fiamma che arde fra le pietre del focolare sistemato da Yohsifyàh in un angolo della vecchia stalla crepita e sbuffa anche un po’ di fumo profumato come incenso mentre da fuori giunge il belare incerto delle greggi assonnate sparse ai margini del deserto.
Il bimbo dorme e il suo lieve respiro si posa dolcemente sugli steli di paglia luminosa che lo avvolgono.
Sembra loro di essere a casa, quando lei si alza nella notte a preparare il pane e lui stende le braci nel forno di terracotta.
(a cura della Redazione)
Note
1 Lc 2,18
2 Altresì detto sindone: il rotolo di lino di Maria per la nascita e il rotolo di lino di Giuseppe di Arimatea e Nicodemo per la morte.
3 Forse non fu del tutto negativo che non ci sia stato posto per loro nella confusa promiscuità dell’albergo o nel caravanserraglio.