EDITORIALE – La giustissia l’è ona ragnera
Per quello che valgono le indagini sulle opinioni, da prendere con la dovuta prudenza, il fatto che la fiducia dei consociati nella magistratura sia sceso dal 68% nel 2010 all’attuale 39% equivale un po’ alla radiografia di una spina dorsale che si palesi indebolita a motivo di una o più patologie intervenute nel frattempo.
Essendo, l’ordine giudiziario, una delle tre gambe teoricamente paritarie dell’aureo sgabello (le altre sono il potere legislativo e il potere esecutivo o di governo) sul quale assiede lo stato demo-libero, e nella specie la nostra Repubblica, un’indagine di ancora maggior rilievo sarebbe interessante da svolgere ponendo analoghe domande contemporaneamente su tutti e tre i poteri.
Non è difficile immaginare una risposta di generale regressione e quindi una valutazione tale da certificare, in un certo senso, l’approfondirsi del solco che separa, conduce a divisione, due dei tre elementi costitutivi, necessari e tendenzialmente unitari, di uno stato: il popolo dalla sovranità (costituita, appunto, nei tre poteri istituzionali di cui sopra).
Un po’ meno rilevante sarebbe, per ora, il terzo elemento, vale a dire il territorio, ma la improvvida e inefficiente suddivisione regionale (come da ultimo appalesata in campo sanitario -che è la competenza primaria- dalle inaccettabili asincronie gestionali dell’infezione -e ancor prima dal fenomeno del ‘turismo sanitario’- oltre che dalle anacronistiche autonomie e dall’essere troppa parte del territorio sotto l’influsso della mala vita più che dello Stato) in un Paese che non ha ancora maturato il senso, quantomeno, dell’unità suggerisce di non pretermettere questo componente.
Per il quale, tuttavia, occorrerebbe diversa analisi e altro approfondimento.
Ma sul solco che tiene distinti e in pratica contrapposti popolo e istituzioni (sovranità) sorgono interrogativi non agevoli da affrontare.
A parte la caratteristica della bassa cucina politica, cioè della politica intrapresa non per vocazione o per servizio, ma perché non si sa fare altro che mettersi vicino al grasso nella speranza di ungersi, bisognerebbe infatti tenere presente che non esiste, come nelle semplificazioni consolatorie epperò ingannevoli, una società civile distinta (e quasi eticamente contrapposta in quanto migliore) dalla società politica.
Questa informe visione è stata la bandiera, per diverso tempo, della poetica sociologica e. g. delle organizzazioni imprenditoriali e dei chiassosi fautori dell’anti-politica (che niente, all’evidenza, avevano a che fare con le prime), ma entra in corto circuito ove si osservi la subitanea resa alle ragioni, all’apparenza kantiane, della detestata politica da parte dei civili i quali presi da sacro fuoco vi si avventano per riformarla.
Chi la considerava un covo di ladri, ben presto ne imparò le regole non scritte (sono quelle, forse le sole, che in Italia funzionano veramente) e chi la voleva aprire come la scatoletta di tonno o la sta ancora annusando dall’esterno o si è, da tempo, leccato via il tonno e tutto il resto.
Chi scrive rimane del parere, ovviamente del tutto arbitrario in quanto soggettivo, che il 68% della fiducia nella magistratura fosse, già nel 2010, migliorabile in considerazione dell’importanza strategica, ai fini dell’equilibrio donde originano, per quel tanto (o poco) che ci si può permettere in questa valle di lacrime, la libertà e la democrazia, sempre perfettibili beninteso, di cui ancora usufruiamo dandole (ahinoi) per scontate.
Con buona pace degli appassionati di Russia e Cina e C. i quali, però, rimangono attentamente stanziali e non si traferiscono nei luoghi dei rispettivi sogni.
Il giudice, per essere all’altezza del compito gravoso cui è demandato e per avere la mia fiducia, deve essere una sorta di sacerdote laico al di sopra di ogni sospetto o illazione: probo, competente, pago del suo status già particolarmente privilegiato (come è giusto in rapporto alla sua funzione) e apolitico.
Non nel senso che non possa avere le sue idee o votare, ma nel senso che così per me come per ogni altro deve egli essere, e non solo cercare di apparire, del tutto neutro.
Diversamente le iscrizioni inneggianti all’uguaglianza davanti alla legge, di cui sono addobbate molte aule giudiziarie, diventano pericolosamente, per la civile convivenza, cariche di doppi-sensi.
Nella realtà emergono però sfortunatamente talune falle, anche ricorrenti (basta riferirsi a quanto riporta la stampa, pur facendoci una prudenziale tara), che inquinano la sicura e tuttavia provvida presenza di tanti gentiluomini e che declassano al rango discutibile di atteggiamenti apotropaici (di cui l’italico popolo è maestro: qualche motivo, nei secoli, lo avrà bene trovato) le pubbliche confessioni di fiducia enunciate da politici e amministratori allorché incappano nella giustizia.
Quelli senza titoli invece, sapientemente considerando le tradizioni popolari in argomento (proverbio milanese: la giustissia l’è ona ragnera), per lo più tacciono e si limitano a maledire fra i denti la scalogna (iella, calamità, disdetta, malasorte, sventura etc) abbattutasi sui loro cauti, mal cauti o mal tentati passi.