L’APPROFONDIMENTO – Arturo Nathan
La Galleria Torbandena di Trieste, nelle sue grandi sale di via S. Nicolò 1, presenta nei mesi da giugno ad agosto 2021 un’ampia retrospettiva dedicata al grande pittore triestino, morto nel 1944 in un campo di concentramento nazista.
Delle circa cento sue opere esistenti ne saranno esposte circa cinquanta.
I dipinti a olio assieme ad alcuni disegni e pastelli, presentati nelle sette sale, ognuna con un tema particolare caro all’artista: gli Autoritratti, le figure di spalle, gli animali, le fortificazioni, la metafisica, i paesaggi marini.
Sarà anche pubblicato il Catalogo dell’opera su carta di Nathan, a cura di Marilena Pasquali (direttrice del Centro Studi Giorgio Morandi), Alessandro Rosada (direttore della Galleria Torbandena) e Daniele Margadonna (nipote dell’artista), che uscirà all’inizio di luglio. Seguirà quello delle opere su tela.
In anni recenti molti musei hanno ospitato opere di Nathan per alcune grandi mostre: L’Esiliato è stato esposto al MART di Rovereto, al Folkwang Museum di Essen e all’Ateneum Art Museum di Helsinki per la rassegna sul “Realismo magico”. Palude (1937) è stato presentato al MAR di Ravenna per “La seduzione dell’antico” e Sortilegi lunari (1933) a Palazzo Madama di Torino nella rassegna “Dalla Terra alla Luna”.
Rupi vulcaniche, 1933
Nonostante alcune grandi mostre antologiche – al Museo Revoltella di Trieste, al centro Saint Benin di Aosta – non era mai stata esposta una così grande quantità di opere dell’artista come per questa rassegna.
E alcuni suoi quadri fanno parte della collezione permanente di musei come l’Hermitage di San Pietroburgo, il Museo d’arte di Tel Aviv, il Museo del Novecento di Milano, il Museo d’arte moderna di Lodz in Polonia, oltre al Museo Revoltella di Trieste e alla collezione d’arte del Quirinale a Roma.
Le visite della rassegna osservano i seguenti orari:
mercoledì, giovedì e venerdì dalle ore 16,00 alle 19,30 mentre sabato dalle ore 11,00 alle ore 13,00 e dalle 16,00 alle 19,30.
Alessandro Rosada, figlio d’arte (i suoi avevano una bella Galleria a Brera, in Milano) e direttore della Torbandena, ha scritto un racconto su Arturo Nathan che, per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo in onore del grande artista e della sua Trieste.
NATHAN NELLE CITTA’ (2)
Il treno per Trieste partiva alle cinque del pomeriggio. Arty non sapeva come prenotare il posto, ma nessun controllore della stazione centrale si era sognato di mettere a rischio il fragile equilibrio che emanava la sua aria ingenua. Come un angelo si accomodò su un sedile vuoto e mise la mano nella tasca del cappotto, per difendersi dal freddo ma anche per estrarne una scatoletta di pastelli a cera. Gli stessi con cui disegnava i treni prima della guerra. Non poteva disporre di una grande varietà di colori: erano ancora i mozziconi di pastello che l’amico Carlo gli spediva nelle Marche, dove era stato confinato dai fascisti in una zona di mezza montagna, forse solo per immaginare il mare.
Sceso a Trieste rivide, nell’incastro delle rotaie, gli stessi treni a vapore che lo avevano fatto sognare mezzo secolo prima, condannati a languire in un deposito del museo ferroviario. Quel fumo che circondava il suo pensiero, e che addolciva la stretta della sua nostalgia.
Riprendendo la via del mare, a piedi, ma senza alcuna capacità divina di attraversarlo, seguì la strada ferrata che portava a un museo d’arte triestino. E qui si rivide, nel suo “Asceta”, come dentro uno specchio, con in capo un lenzuolo bianco che ne sradicava le sembianze umane. Quasi un monaco tibetano imbalsamato, ma nonostante la sua prodigiosa memoria non ricordava più le ragioni di quel travestimento. Pensò a Dio, ma scartò subito l’ipotesi perché certo non poteva mancare di rivendicare il suo totale ateismo. Ma pensò a Dio. Forse in quella fredda figura, in quell’autoritratto riemerso dall’oltretomba, aveva percepito qualcosa di soprannaturale.
Non volle dargli più importanza di quella che credeva potesse avere. Gli autoritratti lo avevano ossessionato fin dall’adolescenza, ma rivedendosi di spalle, di fronte, di sghembo, di traverso, tutto questo non avrebbe cambiato di una virgola il suo rifiuto della realtà. Il suo interesse era trasferire tutte le sue cose, con un cargo, verso un mondo parallelo, ma non vero. Un mondo che gli avrebbe permesso di attraccare senza danno su un molo diroccato, o su una costa in rovina, su una casamatta con le porte sprangate, ma anche su una collina popolata di cervi, su un vulcano in eruzione, su una palude misteriosa che rilasciava a volte quell’odore terroso che ha l’acqua ferma. Gli bastava un libro di Salgari per far riemergere tutto questo e rievocarlo con i tratti di un pennello. Un diario personale scritto col lapis non sarebbe servito a nulla.
Il traffico a quell’ora della sera era fatto di macchine e motociclette. Forme così moderne che Arty non aveva mai visto né sognato. Oltre a un rumore costante che annebbiava la mente.
D’un tratto però il suo cuore ebbe un sobbalzo. Gli parve di percepire da lontano un suono che gli era tremendamente familiare, seguito dalla sagoma di una moto sulla quale non poteva avere dubbi. Era una Harley Davidson, e Arty ne aveva avuta una prima della guerra, un’anima di metallo diventata inseparabile, che lo portava in giro regalandogli quel respiro che a volte gli mancava nella sua stanza buia presso la madre.
Alla vista di quello splendido animale a due ruote Arty pensò che il presente, in qualche maniera, poteva fondersi col suo passato. Certi oggetti rimanevano sul selciato come la mollica di Pollicino, e davano qualche speranza di non smarrire la strada di casa. Fu il suo amico Sbisà a ritrarlo in una grande, bellissima tela a cavallo della sua moto, infagottato dentro un giubbotto di pelle. E quell’immagine lo accompagnava nel tempo, gli concedeva la libertà di fermarlo.
Ormai più attrezzato ad affrontare le difficoltà della vita presente, Arturo poté prenotare un volo per Israele. Ricordava bene le parole di un’assistente del museo di Milano: “Maestro, al Museo di Tel Aviv c’è un suo straordinario acquarello. Ci vada se ne avrà la possibilità”. Nathan aveva conservato il passaporto inglese e non ebbe difficoltà ad entrare in Terra Santa. L’aria era elettrica in città, e la tensione si percepiva fin dal mattino. Ma entrato nel museo, alla fine di un lungo corridoio del TAMA ritrovò la sua “Melanconia del naufrago”. Un altro suo autoritratto con l’intera figura avvolta in un una specie di sudario giallo. Erano gli anni Venti del secolo scorso, e quel naufrago aveva l’insopportabile somiglianza con un migrante scampato al vortice del mare, o con un palestinese sopravvissuto ai soprusi militari dietro le porte di Ramallah.
Quel piccolo acquarello gli ricordò la sua opera più bella, “L’Esiliato” del 1928 (Arty qui si costringe in una camicia di forza gialla, ha gli occhi chiusi e dà le spalle al mare, delle balenottere gli scivolano dietro con la leggerezza che hanno le creature della fantasia). Ne ricevette l’immagine per posta (all’indirizzo dei rifugiati la posta viene sempre consegnata), spedita da una graziosa biondina di Parma che lo aveva acquistato e a cui era parso talmente bello da convincere il padre ad affiancarlo al quadro più importante della collezione: una vecchia tela di Francis Bacon. Tutto questo la ragazza glielo aveva scritto, e Arty si commosse perché, pur non avendo conosciuto Bacon nella vita passata si era accorto – nella sua vita attuale – frugando tra i libri dei musei, che questo pittore inglese era effettivamente un gigante, e che aveva costruito la sua fortuna, nonostante gli eccessi in vita e le sue dissolutezze (di cui Nathan non seppe nulla, e che certamente non avrebbe approvato) proprio nel secondo dopoguerra. Arty rispose con l’educazione di un tempo alla ragazza di Parma, alla quale non servì nemmeno leggere la firma della lettera perché aveva capito fin dall’inizio che quella calligrafia così antica non poteva essere che del grande pittore triestino.
Nathan aveva preso alloggio in una pensione della città vecchia. Lì le tracce della nuova urbanità parevano smorzarsi tra mura scrostate e case basse. Alcuni viottoli erano vietati alle automobili e i rumori si confondevano con quelli del passato. Al nostro eroe non era piaciuto molto l’impatto col nuovo mondo e alcuni caffè storici diventavano per lui una via di salvezza. Comprò alcuni libri per farsi compagnia, dato che gli incontri casuali e la conversazione non erano mai stati il suo forte. Il cappello all’irlandese lo proteggeva dalla bora e, passeggiando, si sarebbe chiesto più volte, dove erano vissuti Joyce, Svevo e l’amico Sbisà. Non riusciva ad orientarsi bene pur avendo frequentato le loro case.
Ricordava però di aver smesso di dipingere all’inizio della seconda guerra mondiale, pur avendo continuato a produrre meravigliosi pastelli di piccolo formato dove ricostruiva il mare e ciò che lo circondava. Alla fine del ’43 avrebbe smesso del tutto, trascinato via dalla barbarie.
Una notte si svegliò di soprassalto, cominciando a domandarsi il perché di questa sua resurrezione. In genere le persone che in un certo senso si sono “risvegliate” sono totalmente prive di memorie passate. Ma non lui.
(la prima parte del racconto è stata pubblicata nel precedente numero 165)
Alessandro Rosada, notte tra l’11 e il 12 giugno 2020.