L’EDITORIALE – La primavera di Roma
La primavera di Roma, con un governo bensì variamente molestato da partiti di doppia o tripla lingua, ma condotto da un presidente che, oltre alla competenza professionale, si è (rara avis) distinto per capacità di lavoro e serietà politica -trascinando virtuosamente in scia anche taluni ministri che hanno potuto mediante il pragmatico confronto con altre analoghe esperienze verificare de visu differenze operative non marginali- si è conclusa al pari di altre primavere, comprese quelle stagionali e quelle mediterranee. Troppo presto.
Al signor Draghi va il sincero ringraziamento e il plauso di non pochi concittadini i quali, una volta, si sono sentiti tramite l’opera e il comportamento di propri rappresentanti politici in carica non in fondo alla classe con le orecchie d’asino o in mezzo al guado per rimanerci: pochi mesi non bastano, ovviamente, a realizzare in maniera definitiva obiettivi importanti e numerosi che corrono come biglie su uno scenario complesso di guerra, crisi energetica ed economica, inflazione, pandemia etc, atteso che neanche i più bravi ed efficaci-efficienti manovratori hanno la bacchetta magica che talvolta sarebbe invece necessaria, ma di certo bastano, da un lato, a marcare le differenze con i numerosi mutrioni in servizio permanente pro domo eorum e i logorroici campioni abili più nelle contese che nell’impegno e, dall’altro, a far provare l’ebbrezza, sconosciuta ai più, del movimento razionale anziché dell’impantanamento cronico.
Non pochi concittadini, anche quelli di norma senza voce poiché impegnati a tirare la carretta pure per conto del gregge antropofago che non lo fa troppo impegnato nel niente, si stavano rapidamente abituando alla dignità, non solo vagheggiata o percepita, ma riconosciuta di un Paese pur con mille problemi e difficoltà, ma di pari livello degli altri, s’intende dell’Europa civile, a loro volta non privi né di problemi né di difficoltà.
Ma questa promozione era (comprensibilmente: mettiamoci nei loro panni) vissuta sempre con maggiore preoccupazione e ansia dai politicanti i quali, incapaci di competere nel merito, hanno sempre preferito (e continuano a preferire) eccellere nell’esercizio dell’altalena, delle promesse e delle risse.
E così è stata fatta terminare, con incoscienza pari all’insipienza e senza cura alcuna per il bene comune, a sproposito di moda sulla bocca di tutti, la primavera di Roma del signor Draghi e di coloro che cooperavano con lui.
Dalla primavera però il salto è andato ad atterrare non sui frutti dell’estate, ma direttamente sulle foglie cadute (sebbene talune esteticamente apprezzabili) dell’autunno inoltrato e già con vista invernale: sono ricominciate le risse, i duelli e le sparate verbali più scoppiettanti tanto per mettere al più presto un termine alla credibilità e alla affidabilità (se ne sentiva infatti il peso) di un Paese che, politicamente, ha sempre fatto fatica a farsi prendere sul serio dai colleghi.
Nonostante la sua indubbia capacità, verso il proprio interno in particolare, di auto-gonfiarsi a dismisura come una rana e di auto-assolversi regolarmente dalle mancanze, scelte o non scelte e ritardi incolpando di norma a preferibilmente gli altri (UE in testa): la cultura della responsabilità (personale, sociale e politica) è infatti ignota ai più.
Qualche burlone si è preso la briga di raccogliere spezzoni di comportamenti, smozzicate frasi e svarioni di non pochi protagonisti all’attuale ribalta e il risultato potrebbe invero anche muovere al riso -a patto di essere di bocca buona, si capisce- nell’ambito di uno sketch o qualcosa di simile, ma concernendo soggetti, comunque, di un certo peso politico si tinge di sconforto la casa comune.
Mister Draghi, sentiamo già la sua mancanza (peraltro su questo non si avevano dubbi: coloro che si erano defilati e la lasciavano lavorare non era per civica e politica cooperazione al progetto di salute pubblica in una contingenza tragica, ma per affilare i denti in attesa dell’occasione) e al pari di tanti concittadini nostrani già scivolati nella mestizia politica anche qualche Cancelleria, oltre confine, sta prendendo burocraticamente atto che l’Italia è tornata quella di prima e dei giri di walzer dentro e fuori.
Ora, la regola principale della democrazia, la sua ragion d’essere, è l’alternanza, termine che a molti democratici convinti fa venire l’orticaria a meno che non significhi di realizzare l’alternanza con se stessi (in prima fila ci sono i partiti), e quindi non è mestieri criticare il diritto degli elettori a scegliere il cambiamento.
Si prende però atto con delusione come si usi il metodo democratico allo scopo di interrompere un processo virtuoso in atto dissimulando (o meglio: in tal modo palesando) motivazioni di bottega o abbiette e futili non conferenti alla contingenza e alle necessità collettive.
Il nuovo governo, matricola numero sessantanove, conta ventiquattro sottosegretari di Stato (ministri) -di cui nove donne, in buona parte nuovi o freschi del mestiere, mentre su qualcuno già sperimentato … glissons, glissons – e ha subito giurato dando al popolo esempio di solerte efficienza: davanti ai macigni che già ingombrano il sentiero tutti coloro che sono, ancora, in buona fede verso l’Italia e la Repubblica gli augurano sinceramente buon lavoro.