DE LITTERIS ET ARTIBUS – il Cinema ritrovato – Un dimanche à la campagne (Una domenica in campagna), Bertrand Tavernier (1984)
Il cinema è, fra le forme artistiche cui si rivolge la fantasia e l’intelligenza dell’uomo, la più recente (fine ‘800) altresì denominata ‘settima arte’: basandosi sul movimento riprodotto concreta una forma di narrativa normalmente di approccio più agevole o meno complesso rispetto alla lettura, ma in grado di ‘parlare’ ancor più direttamente allo spettatore (lettore).
Come ogni altra può rivelarsi assolutamente inutile oppure elevarsi a offrire esperienze e sensazioni di valore che, in virtù del mezzo tecnico costituito dal film, possono agevolmente essere riproposte nel tempo.
Con il titolo de ‘Il Cinema ritrovato’, pubblichiamo alcune pennellate sulla scuola francese (storicamente sorta con gli inventori Lumière) a cura di un cinèfilo che la conosce sia nella cultura generale sia nei suoi protagonisti.
Un dimanche à la campagne (Una domenica in campagna), Bertrand Tavernier (1984)
Siamo agli inizi del ‘900, il film, evanescente e luminoso come una tela impressionista, ci introduce nelle atmosfere delicate e malinconiche di una grande villa circondata da un giardino intriso dei colori caldi dell’autunno.
Vi abita monsieur Ladmilral (Luis Ducreux), un anziano pittore rimasto vedovo che, come quasi tutte le domeniche, attende l’arrivo del figlio Gonzague (Michel Aumont), della nuora Marie-Therese (Genevieve Mnich) e dei tre nipotini nella speranza di rompere la monotonia delle sue giornate.
L’entusiasmo per il loro arrivo, che interrompe la sua quotidiana solitudine, si attenua però rapidamente di fronte al tratto perbenista del figlio e della sua famiglia.
Perbenismo che si traduce in una formalità rigorosa nei rapporti, atteggiamenti e discorsi tarpando la libera manifestazione di affetti e sentimenti.
Il tempo che insieme trascorrono è scandito da liturgie ripetitive: il pranzo, il riposo che ne segue, il te, conversazioni banali e forzose.
L’arrivo inaspettato della figlia Irene (Sabine Azema), allegra e stravagante, sovverte il monotono domenicale torpore e così il pittore settuagenario, con la gioviale complicità della figlia, riesce a esternare quel che rimane ancora del suo giovanile entusiasmo che per pudore nasconde al rigido e formale figlio.
Indicative del clima e dei caratteri risultano le acide battute di Gonzague sulla sorella (forse sintomatiche di una profonda gelosia del suo essere diversa); di converso gli slanci affettuosi e irruenti di Irene per il padre rivelano una affinità che va oltre l’amore filiale.
Per non addolorarlo Irene nasconde al padre i suoi dolorosi tormenti sentimentali, la solitudine che sopporta a motivo della sua natura di donna libera e indipendente che rompe le regole di un mondo maschilista, tradizionalista e perbenista.
E così quando Irene si allontana alla guida di una elegante automobile per continuare a vivere la sua vita senza regole e tradizioni all’inseguimento dei suoi desideri, il padre le lancia un saluto “reste jeune”.
Quel “resta giovane” racchiude tutta la nostalgia e malinconia del personaggio che non ha osato a suo tempo fare altrettanto, condizionato dall’accademismo dei suoi maestri.
Il film si limita a raccontare niente altro che il quotidiano, con dosi di malinconia e riflessione, e affronta con splendido equilibrio il tema proustiano del passato e della nostalgia.
Lungo tutto il film l’approccio stilistico di Tavernet è discreto, interiore, consono alla solitudine dei suoi personaggi; non affronta le cose di petto, ma le lascia svolgersi con la lontananza che richiede la visione e comprensione di un’opera pittorica.
Il film è intriso di citazioni pittoriche e richiami a eventi o artisti legati al mondo impressionistico e talune scene del film fanno altrettanto.
Le due gioiose nipotine che monsieur Ladmilral guarda, come trasfigurate in sogno in alcuni momenti della giornata, evocano Renoir, la scena della candita tovaglia del pic-nic che riempie un primo piano ci richiama Manet e il suo Dejeuner sur l’herbe e ancora il ponticello dello stagno, al quale mancano solo le ninfee per rimandare ancora a Monet.
Tutti gli attori, guidati con mano ferma dal regista, sono perfetti e in perfetta sintonia fra loro, con la storia, con il regista.
Su tutti emerge la splendida Sabine Azema, che fa di Irene un personaggio adorabile e vulnerabile senza mai andare sopra le righe o strabordare nell’istrionico (Premio Cesar 1985 come migliore attrice protagonista).
Antonello Nessi