L’EDITORIALE – L’inverno meteorologico
Con il primo di dicembre è iniziato l’inverno meteorologico e si avvicina il solstizio invernale, il giorno più corto dell’anno, che quest’anno è il 22 dicembre, ed essendo questa la stagione propizia alle precipitazioni atmosferiche piove.
Come anche, secondo memoria e senza ausilio di statistiche, ha nel passato sempre piovuto.
Ma forse ora piove male, diciamo così, e fra rovesci, temporali fuori stagione, diluvi e bombe d’acqua, dato che non bastano le bombe vere che continuano a scoppiare indisturbate, anche i bollettini della Protezione civile sembrano a loro volta bollettini di guerra di infausta memoria con la differenza che sono preventivi e non postumi onde neanche obbligati a inventarsi qualcosa.
Solo, probabilmente, tendono a stare un po’ larghi per non essere poi subito accusati di non avere fatto il loro dovere nel diramare informazioni tempestive.
La sera del primo dicembre, a esempio, è stata segnalata allerta rossa per l’indomani in Emilia-Romagna, arancione sempre in altre parti dell’Emilia Romagna, Lombardia, Liguria e Toscana e gialla in ulteriori dodici.
In pratica, se in inverno piove, va in allerta così detta idraulica più o meno tutta l’Italia.
Si dice che piova male in quanto ora, a differenza degli acquazzoni e dei rovesci anche lunghi e violenti che c’erano un tempo e anche producevano i loro danni -poiché in ogni caso il Paese per la sua conformazione presenta, e non da oggi, un elevato rischio idrogeologico- la caduta dell’acqua dal cielo è oltre che violenta anche maggiormente concentrata e questo mette a dura prova o in crisi la resilienza sia della terra in sé sia del grandemente e sempre più esteso manufatto antropico che la terra ricopre.
Sui motivi di queste modifiche meteorologiche in corso, se esse siano destinate a essere stabili o casuali etc, non c’è, come è logico, condivisione o accordo né fra le opinioni, per quello che valgono, né fra le ideologie, che al riguardo valgono ancora meno e che si impossessano di ogni criticità a scopo meramente polemico, né fra i tecnici e gli esperti e questo invece è una calamità poiché, di fatto, manca e continua a mancare una articolata azione pubblica, quantomeno nei limiti del possibile, correttiva e preventiva, ma all’evidenza necessaria.
In difetto della quale (debole da sempre) non c’è poi tanto da stupirsi se anche dall’ultimo Rapporto del Censis, 2023, emerge come l’80,1% (l’84,1% tra i giovani) dei cittadini sia convinto di una Italia irrimediabilmente in declino.
È certo opportuno e doveroso avvisare le persone, a esempio, di non uscire di casa o di trasferirsi, chi può, ai piani alti, ma ancor meglio sarebbe non essere costretti a dare consimili annunci.
Riscaldamento terrestre sì (peraltro è misurabile) o no, buco nell’ozono sì o no, chiunque (anche il terra-piattista) comprende che la pioggia è necessaria come l’aria che si respira se non si vuole finire nella desertificazione circa le cui genesi e progressioni, anche recenti e tuttora in atto, ci sono vasti, tragici e drammatici esempi in Africa.
Non solo: ma appena arriva l’estate anche arriva il coevo e tradizionale allarme per la siccità, i bacini asciutti e le connesse inevitabili conseguenze per le sorti dell’agricoltura.
Non c’è dubbio sul fatto che basti neanche tanta pioggia perché si abbia rischio di frane, di esondazioni, di fiumi o rogge in piena, di ponti traballanti e di città poco praticabili (docet l’unica città con pretese europee, Milano, dove -a parte sempre il Seveso e il Lambro- diventa un’impresa anche circolare sui marciapiedi o attraversare le strade fra tombini che non ricevono e asfaltature avvallate o con pendenze contrarie).
Se poi piove molto, il disastro si presenta con puntualità.
Il dubbio è su quanto si realizza o non si realizza (o si continua a non realizzare) dopo che la pioggia ha prodotto i suoi danni o, ancora preferibilmente, su quanto si dovrebbe fare perché pur piovendo e nonostante ciò non conseguano disastri.
Quantomeno fino al prossimo diluvio, che il Signore ha promesso di non rifare e gli crediamo, ma che nessuno dei potenti al timone delle varie chiatte dei popoli (il nostro compreso) sembra seriamente intenzionato non tanto a contenere nei fatti quanto piuttosto a non produrre lui stesso con le sue temerarie scelte strategiche o perduranti inadempienze.
Nei fatti, ripetesi, perché a parole sono (quasi) sempre tutti garruli di ammissioni e di critiche di circostanza e di promesse tosto dimenticate e non mai messe in pratica.
È evidente che curare il territorio (dalle manutenzioni delle alture e dei boschi non più realizzate a causa dell’esodo degli abitanti alla pulizia dei corsi d’acqua; dagli impianti idrici al consumo di suolo e sua cementificazione etc) costa, e molto, sia in denaro sia in studio, rilevazione, progetto, attuazione e controllo (che comunque sempre denaro sono), ma altra opzione non è data se si vuole evitare che a ogni caduta di acqua, necessaria alla vita, ci sia da riparare (anche il riparare costa, anche di più) e se qualcuno ci lascia anche la pelle non c’è neanche rimedio.
A fronte di che diventa, sul piano socio-politico e della più generale civilizzazione di un popolo, necessario e urgente ri-pensare in modalità democraticamente negative a quanti propongono circenses ad altissimo consumo di risorse pubbliche, da tempo arrivate alla lisca (e quindi a nuovi indebitamenti), del tipo Roma Expo, che per fortuna i ricchi biancovestiti si sono accaparrati al grato suono dei tanti milioni onde sono pronti e cortesi, o del tipo ponte di Messina il quale (non essendoci se non nel pensiero di taluno) è però già costato oltre 300 milioni e un contenzioso di circa 700, sostanzialmente in coincidenza con la stima di un miliardo, in euro, fatta da Legambiente.
E che costerebbe (secondo l’ultima stima del Documento di economia e finanza dello scorso aprile) 13,5 miliardi escluse le opere connesse su entrambe le sponde ed escluse svariate conseguenze, in parte nemmeno definite, di ordine ambientale ed economico che sarebbe qui estraneo all’articolo considerare.