L’EDITORIALE – La bellezza, tra concetto e aspirazione
La bellezza, sia come concetto in sé sia come aspirazione, non è una scoperta dei nostri tempi, ma risale -ovviamente attualizzandola vs il passato e quindi considerando che ogni civilizzazione ne ha una visione propria- a tempi immemorabili e a noi ignoti.
Possiamo intuire questa tendenza o considerazione intorno alla bellezza e.g. dagli strumenti da toelette e dai tanti prodotti per la cura della pelle e del corpo rinvenuti in gran numero di tombe e abitazioni sepolte per secoli fra sabbie dei deserti, steppe e altopiani spazzati dal vento e progressivamente riportate alla luce dalla ricerca archeologica.
I latini denominavano aromata le spezie di ogni genere, che le carovane commerciali recavano dall’Oriente, largamente usate per numerosi scopi: religioso-rituali, gastronomici, medicinali, dermatologici, cosmetici.
Gli Egizi furono maestri di una cosmesi che già perseguiva contemporaneamente più obiettivi come miglioramento in termini di presentazione estetica di viso e sguardo, avvenenza fisica, distinzione sociale, effetti medicamentosi.
Il kajal o kohl era una polvere composta da minerali e olio o grasso animale usata per delineare il contorno degli occhi allargandolo verso le orecchie e accompagnava altresì la pratica di velare le palpebre (operazione per la quale soccorrevano anche ombretti di altri colori come verde, rosso cinabro o vermiglione, arancio, viola, azzurro) della quale abbiamo nitidi esempi nei numerosi reperti che hanno contribuito a formare e trasmettere la nota rappresentazione antico-egizia dell’essere umano.
Contenitori per il kohl, che era applicato con appositi strumenti in legno od osso, risalgono al Nuovo Regno (1550 – 1069 a. C.), ma la mescolanza era già nota (prime sue tracce risalgono all’età del bronzo, dal 3400 a. C.) e diffusa in tutto l’Oriente, Africa del Nord e subsahariana e Asia meridionale, in particolare India, per scurire le palpebre principalmente a scopo di protezione dell’occhio contro polvere, abbagliamento, infezioni varie oltre che, come taluni ricercatori suggeriscono, a scopo apotropaico per preservare i bambini, fin dalla nascita, dal malocchio.
Nella Grecia classica il corpo era considerato in prospettiva ideale di bellezza e armonia e quindi oggetto di molte attenzioni che non mancavano di ispirarsi anche a parametri estetici come e.g. l’ovale regolare del viso e del capo.
Non sempre, ovviamente, la natura si prestava ed ecco che, allora, soccorreva l’arte figurativa: così Pericle, che aveva la testa a pera, non per niente risulta nelle sculture di regola raffigurato con l’elmo.
Inoltre, i sempre più frequenti contatti con le civiltà orientali e rispettivi usi e costumi, nonostante il disvalore normalmente riservato ai ‘barbari’, favoriva e promuoveva la diffusione dei cosmetici e del trucco per cui le donne, e anche gli uomini, usavano truccarsi e profumarsi fino al punto che in numerose località (Atene, Siracusa etc) furono istituite particolari magistrature incaricate di esercitare una forma di controllo civico sul lusso e le sue varie manifestazioni onde non ci fossero esagerazioni: erano costoro i gineconomi (γυναικονόμοι) che, dedicati come suggerisce il loro nome (norma della donna) al controllo delle donne alle quali e.g. non era lecito intervenire a cerimonie religiose con il viso dipinto (le donne in Grecia si truccavano tutto il viso in modo da assumere un colore chiaro) o sfarzosamente abbigliate, pare certo vegliassero anche sui comportamenti maschili che quanto a esibizionismi non erano da meno.
Ideatore dei gineconomi sembra essere stato il politico filo-macedone Demetrio Falereo, filosofo peripatetico del IV-III secolo a. C., figura di spicco nel governo di Atene per diversi anni e oggetto di canzonature da parte dei comici del tempo per la sua trovata.
Viceversa a Sparta, secondo Plutarco, lusso e cosmetici non erano apprezzati preferendosi piuttosto virtù civiche, atletiche e militari comuni fra uomini e donne secondo l’insegnamento dell’antico Licurgo (legislazione del V secolo a. C.) del quale tramandano si sia suicidato dopo aver fatto solennemente giurare ai concittadini di osservare le sue leggi fino al suo ritorno (dal viaggio che stava per intraprendere).
I Greci si spinsero altresì a teorizzare esplicitamente la bellezza collegandola, direttamente e reciprocamente in un’ideale coppia di aggettivi, con la bontà: ‘bello e buono’ (kalòs kai agathòs) intendendo la bontà come il coarcevo di tutte le virtù, onde anche il bello non risultava più solo nell’aspetto sensibile, ma anche in quello morale: i due aspetti diventavano complementari al punto che cosa fosse bello non poteva anche non essere buono e ciò che fosse buono era necessariamente anche bello.
Complementarietà cui sovente ancora sembra si tenda ad aderire quasi con spontanea fiducia, ma invero alquanto temeraria al di fuori del perimetro filosofico nel quale è stata idealizzata e comunque in evidente conflitto con la natura fisica e la realtà degli umani.
Nondimeno il binomio bello-buono è, anche se per tradizione non priva di qualche benefica e istintiva illusione, passato attraverso i secoli e giunto fino ai tempi moderni nei quali è stato, fra l’altro, magna pars di azioni e comportamenti riguardanti, in particolare, la bellezza e dando come per scontato, o lasciandolo in ogni caso al comune sentire ancestrale, il suo collegamento (anche) con la bontà.
Nel presentare e promuovere sempre novelli ritrovati e prodotti per il viso e il corpo così come per la migliore forma fisica si fa ricorso a modelli per lo più femminili, ma non solo, belli e palesemente in invidiabili condizioni psico-fisiche e sorridenti che si è portati naturaliter a presumere altresì, nella immaginazione di chi li osserva, amichevoli, simpatici e positivi nella loro vita sia privata sia di relazione, cioè buoni, e non certo mentre compiono qualche azione perversa.
Lo spazio del binomio ‘bello e buono’ si sta ora restringendo e, in un certo senso, torna alla primitiva visione del solo corpo in ideale di bellezza e armonia onde dispensatori di questa offerta sono gli istituti di bellezza e (ahinoi) quella chirurgia estetica non rispettosa della natura, ma artefice di fattezze vagamente aliene mentre, front office in servizio continuato, dal canto loro le farmacie espongono una vasta scelta di soluzioni per rincorrere l’oggetto del desiderio promosse (ma il commercio e la pubblicità hanno notoriamente le loro trappole) con immagini di belle modelle avvenenti e di norma ben più giovani dei soggetti cui si rivolgono dispensando esili e incerte speranze.
Mentre viceversa nella moda i soggetti, di ambedue i sessi, lasciano per lo più la antica via della bellezza per una immagine neutra, quando va bene, se non proprio brutta, scialba, imbronciata, corrugata, preoccupata etc che si allontana dal complementare ‘buono’ proponendo a chi legge o guarda un retrogusto più o meno diffuso e pronunciato di cattiveria, ringhiosità, irritazione, spazientimento tale da ricordare, se mai fosse necessario, l’affanno dell’oggi e del domani al posto di una pausa, sebbene anche solo sprazzo nel generale grigiore, riconducibile a una bella figura abbigliata in una bella veste.
Le scelte dei pubblicitari non sono però casuali e anche queste sono specchio di tempi e di comportamenti conformi: ogni periodo, non solo l’oggi, ha la sua pena e a ciascuno tocca (più o meno) almeno parte di quello che semina o non semina.