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L’EDITORIALE – Il canto del merlo

La primavera porta notti sempre più brevi mentre si avvicina il giorno in cui il flusso del tempo, simile a un placido cerchio privo di inizio e di fine, si trasforma silenziosamente in estate dandole il cambio per una corsa di altri tre mesi.

Il vicendevole confluire delle stagioni, vegliate con poetica cura dalle fasi lunari, assomiglia al movimento della clessidra che all’inizio pare fermo, tanto è insignificante il passaggio inavvertibile dei granelli di sabbia in caduta nel loro piccolo spazio, ma poi diviene palese e, verso la fine, pur angosciosamente impetuoso.

In prossimità del Solstizio (per gli antichi il sole rimaneva e stava quindi fermo), che è il giorno più lungo nel quale il sole più non si alza oltre sopra l’equatore celeste e, nel nostro emisfero, si ferma un attimo alla sua massima altezza per poi tornare pian piano ad abbassarsi, alle quattro di mattina è ancora buio, sebbene già con qualche goccia luminescente versata dalla Via Lattea ed è quando nel silenzio vola prima di ogni altro il canto del merlo.

Quando si dice, un po’ sbrigativamente, che il merlo fischia certo non si rende giustizia alla musica nitida e flautata, voce di questo piccolo pennuto che accompagna il ridestarsi del mattino e, durante il giorno, numerosi diversi momenti, compreso quello corrispondente all’ora più calda in cui tutto tace salvo, dove ci sono, le cicale, e poi fino al buio della sera.

Per di più il merlo non canta solo nella libera natura, ma anche negli abitati urbani così, fortunatamente, in qualche modo ingentilendoli per quanto possibile e non abbandonandoli del tutto al loro artificiale fracasso.

E pur nidificando in coppia monogama, e quindi tendenzialmente separato, intesse sovente duetti e anche cori con altri della sua specie così producendo piccoli concerti.

Dotato di nera, pur elegante e lucida livrea su cui spicca allegramente il giallo ranciato del becco, non ha nel passato, al pari del gatto dal pelo del medesimo colore, goduto in genere di grande simpatia, ma si intuisce agevolmente come nei secoli, prima dell’illuminazione artificiale che ora con poco criterio si dà per scontata, il colore delle tenebre si associasse nel sentimento degli umani alla paura e al male.

E così anche per la sua reciprocamente fedele consorte vestita di grigio fumo di Londra, a proposito della quale una gentile leggenda ricorda che l’uccellino un tempo fu bianco latte, ma agli ultimi di gennaio di un inverno particolarmente rigido a coprire di neve ghiacciata la terra il freddo indusse la madre a portare la sua nidiata su di un tetto al riparo e al tepore di un accogliente camino onde, passata l’emergenza dopo tre giorni (i tri dì de la merla) la famigliola si ritrovò nera come il carbone o il ceppo di quercia dal cui calore aveva avuto salva la vita.

In campagna, quando a sera (che in inverno scende presto) si sentono, senza vederli nel crepuscolo, cantare i primi merli nel mezzo dei rami ancora spogli, si dice che essi chiamino la primavera ed è vero perché si schiude già per loro il tempo degli amori.

C’è stato di certo un albeggiare nella creazione, indietro e lontano nel tempo, in cui per la prima volta e forse in mezzo a sconosciuti versi di animali ora scomparsi si è levato, anche se nessuno lo ha udito, il primo canto del merlo.

La vita è un miracolo nel cui scorrere è superfluo andare in cerca dello straordinario perché essa stessa è un continuo miracolo ed è l’uomo che, per la sua temerarietà e arroganza, ha perso la capacità di ascoltare e comprendere le voci, compresa la propria.

Buona e quieta estate a tutti e ai nostri lettori e amici.

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