HomeDialogandoL’EDITORIALE – Presidenziali USA: Una Competizione tra Contraddizioni e Sogni Americani

L’EDITORIALE – Presidenziali USA: Una Competizione tra Contraddizioni e Sogni Americani

Questa nota è stata, volutamente, scritta prima delle elezioni presidenziali USA, in data 4 novembre, un tempo Giorno della Vittoria a epilogo di una tragedia, la Grande Guerra, che infiniti addusse lutti all’Italia (e non solo) e ora, dal 2024, Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate nonché dallo scorso anno, a istanza del ministero della Cultura, anche terza data di accesso gratuito nei musei (con il 25 aprile e il 2 giugno) in occasione di ricorrenze dall’alto significato storico.

Chi scrive non ha conoscenze specialistiche onde lascia agli esperti sia le articolate e dotte previsioni del prima sia le ancor più dotte e approfondite spiegazioni del dopo (sempre meglio) e si limita, da semplice cittadino cui tocca a sua volta l’esercizio del voto, ad alcune marginali osservazioni a prescindere da chi, nell’agone, sopravanzerà il concorrente.

Gli United States, terzo Paese del mondo per vastità ed estensione, ma primeggiante ad altri titoli come e.g. ricerca scientifica e innovazione tecnologica, sono un’organizzazione socio-politica sicuramente democratica e, in particolare, molto giovane attesa la sua genesi avvenuta nell’ultimo decennio del 700, all’esito di una storica ribellione e guerra d’indipendenza coloniale contro l’imperialismo britannico che fondò una repubblica consapevole e determinata a garantire libertà e numerosi diritti civili fondamentali.

È difficile comprendere come una carica importante, e nel sistema statunitense ben più rilevante e strategica che nelle repubbliche europee, al pari di quella presidenziale sia progressivamente scivolata, quanto alla sua elezione, sul piano inclinato dell’assurdo.

Ci sono circa 336 milioni di abitanti che vivono in 50 stati a ordinamento democratico e nondimeno l’istituzione fatica, in realtà non riesce, ad avere un processo selettivo che progressivamente porti a emergere soggetti politici da valutare in base a capacità e competenze piuttosto che ad abilità polemiche e personalismi ideologici.

È sicuramente vero che le due parti, democratici e repubblicani, non sono partiti istituzionalizzati e relativamente stabili come in Europa, ma sono pur sempre organizzazioni riferentisi a una propria storia, consuetudini, programmi e idee che postulano, per essere realizzate e non solo dichiarate, non indifferenti capacità operative.

Si verifica viceversa che siano in lizza due candidati (sotto svariati profili migliorabili) e che per ciascuno circa la metà dell’ampio elettorato risulti in movimento con il che facendo la gioia dei numerosi sondaggisti.

Il repubblicano, dai dubbi costumi, è un (apprezzato) bugiardo e violento non particolarmente assiduo frequentatore di regole condivise, quanto piuttosto personali, che ha lungamente dileggiato il presidente in carica a motivo dell’età anagrafica e conseguenti inabilità dimenticando di avere quasi ottanta anni a sua volta, un’età già delicata per una patente di guida. A parte alcune traversie giudiziarie (sono sempre presentate come persecuzioni strumentali e personali) non sembra avere realizzato gran che nel precedente mandato chiuso in gloria fra accuse di brogli e prove di insurrezione civile.

Già ora sta rigridando a novelli brogli e democratiche corruzioni onde notizia di stampa è che, intanto, siano in approntamento barriere a difesa della Casa Bianca e Capitol Hill, come i Conestoga in cerchio contro gli indiani nei film dell’Ovest.

Nel Grand Old Party, che ancora ai primi dello scorso secolo si gloriava di qualifiche non marginali come grande vecchio partito della libertà e grande vecchio partito dei diritti umani, erano emerse anche alcune fugaci candidature alternative, ma dopo qualche consueta scoppiettante bordata di insulti e delegittimazioni personali varie sono state prestamente ritirate con, anzi, tanti sinceri auguri di successo che il former president, ringhiosamente in pista per vincere, si degnò di accettare.

Di fatto ha acquistato il partito come si acquista un’agenzia di viaggi e nondimeno molti milioni lo votano e pure alla recente cena di gala dell’Associazione degli italo americani (National Italian American Foundation, NIAF) la maggioranza delle simpatie andava a lui (i Dem hanno sostituito il Columbus day con la festa degli indigeni).

Fra i Democratici, che per la cronaca nella seconda metà dell’800 erano loro il Grand Old Party, l’organizzazione e l’entourage del presidente in carica ha testardamente e invero con la coscienza al bando dissimulato le reali condizioni dell’uomo in modo, da un lato, da innescare polemiche continue e inutili a tutto vantaggio dei Repubblicani e, dall’altro, da perdere mesi preziosi e non essere poi in grado di presentare una scelta alternativa.

Se perdono, mandando al potere il concorrente, non si toglieranno più per un bel pezzo l’etichetta di piaggeria personale unita a irresponsabilità politica.
La signora è stata estratta per le orecchie come il tradizionale coniglio bianco dal cappello a cilindro nero del prestigiatore a tempo scaduto e messa in corsa quando non c’era più altro neanche da tentare: metodo di certo poco democratico e comunque di modesta efficacia per non dire altro.

Sotto il profilo politico, poi, la candidata (di necessità) unica si presenta enigmatica e misteriosa proveniente com’è da una eterea e scialba vice-presidenza e, si diceva, pure da poca fiducia da parte dello stesso presidente: ma è donna, di colore, sponsorizzata da Obama che si presenta ai comizi in maniche di camicia perchè è dem e surrettiziamente eletta a personificazione (fino a un certo punto) dell’american dream per cui chiunque, anche l’immigrato, può farcela.
Si vedrà: è comunque una nomina a carte coperte e, in sostanza, poco democratica.

Di tal che la campagna elettorale è stata più una kermesse di nani e ballerine incentrata su personalismi e su scacchiere tattiche di maghi della comunicazione che su sostanza di programmi e analisi di prospettive.

Può peraltro anche darsi che programmi e analisi siano passati di moda pure negli States e non solo da noi.

Trascrivo, per la sua britannica capacità di sintesi, una frase dal briefing odierno di Reuters: Alla vigilia delle elezioni, l’America è stressata. Di fronte a due visioni radicalmente diverse per il futuro del paese, gli elettori si stanno preparando. Alcuni si stanno rivolgendo alla religione, altri allo yoga, al nuoto o al sollevamento pesi. Alcuni stanno seguendo da vicino le notizie, mentre altri hanno spento TV e smartphone.

E trascrivo altresì, per la sua italica capacità (quando la si usi) di arrivare al nocciolo, il pensiero di Ruggeri, direttore di Zafferano News, pubblicato in data 2 novembre: […] se vince Kamala Harris (una figurina Panini politicamente irrilevante in una dimensione planetaria) l’America si libera per sempre del losco Donald Trump, mentre se vince The Donald l’America si libera per sempre degli altrettanto loschi clan dei Clinton, degli Obama, dei woke. Due aspetti entrambi positivi per un futuro (sano) dell’Occidente […].

Implicita è la speranza che, all’esito dei prossimi (si spera ultimi) quattro anni, si presentino sulla scena soggetti diversi.

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