DE LITTERIS ET ARTIBUS – Il Cinema ritrovato – Le Havre (Miracolo a Le Havre), di Aki Kaurismäki (2011)
E’ una favola poetica e universale, intrisa di speranza e d’amore, l’ultima opera del regista finlandese Aki Kaurismäki.
Novanta minuti di poesia danno vita a una favola in una Le Havre di contorni azzurri e senza tempo, un inno toccante alla brava gente.
Il protagonista, Marcel Marx (André Wilms), ex scrittore bohémien ha lasciato la capitale, in parte per una crisi artistica e in parte perché ha maturato repulsione per il mondo degli intellettuali parigini, e si è trasferito a vivere con la moglie Arletty (Kati Outinen) a Le Havre, in un quartiere popolare con situazioni di emarginazione, per sentirsi più vicino alla gente comune.
Un quartiere dove ancora “buongiorno vuol dire davvero buongiorno” per usare – non a caso – una frase di “Miracolo a Milano” della coppia De Sica – Zavattini.
Sopravvive modestamente, amorevolmente accompagnato da Arletty, e guadagna qualche euro facendo il lustrascarpe, lavoro sempre meno richiesto a causa della diffusione delle scarpe “sportive” ed è emblematica la scena in stazione, dove Marcel vede solo passanti con scarpe da tennis.
Tutto procede nella quiete del suo triangolo quotidiano costituito dalla moglie Arletty, dal suo lavoro e dal bistrò dell’angolo, dove si intrattiene con uomini e donne come lui al margine della società.
Il tranquillo e monotono susseguirsi dei giorni procede pacatamente finché due eventi danno uno scossone alla vita di Marcel: la grave malattia che colpisce la moglie e l’incontro casuale con Idrissa (Miguel Blondin), giovane clandestino minorenne proveniente dal Gabon in fuga verso l’Inghilterra e braccato dalla Polizia portuale perché clandestino.
Qui inizia dapprima una simpatia tra Marcel e Idrissa, poi un’amicizia che farà vivere ai due una serie di incredibili situazioni tragicomiche.
Il protagonista troverà la solidarietà della gente del quartiere – la fornaia, il fruttivendolo, la barista – che lo aiuteranno nel suo intento, ossia nascondere il ragazzo alla Polizia e aiutarlo a trovare la somma necessaria per essere “traghettato” dalla madre che vive a Londra, grazie all’organizzazione di un concerto rock di beneficenza.
Centrale nella storia il personaggio del poliziotto Monet, interpretato da Jean-Pierre Daroussin (grande interpretazione), in apparenza un inflessibile Javert preso di peso da “I miserabili” si rivela invece personaggio che sembra uscito da un film di Melville (con la carica morale con la quale Melville riveste i suoi personaggi all’apparenza più oscuri e ostici) e che concorre attivamente, in parallelo con Marcel (accompagnati entrambi da una reciproca diffidenza), nel tutelare Idrissa depistando più volte i colleghi poliziotti sul punto di catturarlo.
Il miracolo è doppio, da una parte la solidarietà complice dimostrata dalla rete di amici del lustrascarpe nei confronti del piccolo fuggiasco, dall’altra la guarigione miracolosa della moglie adorata di Marcel.
La battuta più bella ed emblematica del film, il breve dialogo in ospedale fra il medico e Arletty, commentando la grave malattia e la sua evoluzione: “restano i miracoli” dice il dottore, “non nel mio quartiere” chiosa Arletty.
Miracolo invece sottolineato nel finale del film dalla inconsueta fioritura fuori stagione del ciliegio sito nel giardino del protagonista.
Il film è un omaggio e un inno alla grande stagione del cinema “neorealista” italiano (evoca uno dei grandi film della coppia De Sica – Zavattini “Miracolo a Milano”, Gran Prix a Cannes nel 1951).
Tutto nel film, la storia, l’ambientazione, i personaggi, i dialoghi, la recitazione, persino l’uso della macchina da presa richiamano il neorealismo e in particolare il cinema di De Sica.
Una notazione finale che non c’entra molto con il cinema, ma mi rapisce quale cultore del Calvados (distillato di sidro di mela, originario del Calvados, dipartimento della regione della Normandia).
Verso la fine del film ecco il dialogo fra il lustrascarpe Marcel e il poliziotto Monet, finalmente scopertisi sodali.
Marcel: “Posso presentarle le mie scuse davanti a un bicchiere?”.
Monet: “Perché non un calvados?”.
Dietro a queste due semplici battute c’è l’anima di un distillato più che centenario, nipote delle mele e figlio del sidro, che stimola parole e riflessione, si beve in compagnia, ma anche soli, magari come il commissario Maigret, meditando al bancone di un bistrò parigino.
Antonello Nessi