L’APPROFONDIMENTO – Soldati
Un quesito che vale la pena porsi è come sia possibile convincere un essere umano a rischiare la propria vita in guerra, andando contro il formidabile istinto di sopravvivenza scolpito dall’evoluzione all’interno di ognuno di noi.
I nostri cugini scimpanzé hanno le idee abbastanza chiare in proposito: è vero che i maschi pattugliano i confini del territorio del gruppo, ma il loro comportamento segnala in modo inequivoco che la difesa è più di scena che di sostanza. Infatti gli scimpanzé di vedetta sono del tutto restii a correre rischi personali significativi e arrivano allo scontro violento solo quando sono in schiacciante vantaggio numerico.
Nella storia umana invece ci sono stati innumerevoli eserciti composti da soldati disposti a combattere battaglie anche senza speranza e pronti a sacrificare la loro vita. Di solito, per spiegare questo comportamento anti-evoluzionistico si valorizzano fattori quali il patriottismo in tutte le sue forme, il fanatismo religioso, le ideologie.
Ma giova ricordare che – nei secoli – per ottenere dai soldati disciplina e disponibilità al sacrificio sono stati utilizzati essenzialmente due metodi: quello di rendere la vita militare comparativamente migliore della vita altrimenti disponibile oppure quello di renderla obbligatoria per un certo numero di anni.
Quando la vita era molto dura e relativamente breve, l’opzione miliare offriva vantaggi non trascurabili: il soldato riceveva benefici immediati (come suggerito dall’etimologia) e futuri, a fronte del rischio dell’accorciamento della sua vita, destinata comunque a non essere lunga.
D’altro canto, la coscrizione obbligatoria consentiva un ampio reclutamento che peraltro era possibile solo in società fortemente gerarchiche, era esposto a fenomeni quali la renitenza e la diserzione e generava spesso uno scontento diffuso.
In questa prospettiva, gli Stati Uniti di oggi costituiscono un’anomalia davvero sconcertante, visto che il paese riesce a reclutare tra i propri cittadini un sufficiente numero di soldati volontari da formare il più grande esercito al mondo (in relazione alla popolazione), sebbene abbia rinunciato da mezzo secolo alla leva obbligatoria (a causa delle laceranti polemiche legate alla guerra del Vietnam) e abbia uno dei più elevati tenori di vita del pianeta.
Come si spiega che in un paese ricco e libero la vita militare possa essere comparativamente migliore rispetto a quella altrimenti disponibile?
I motivi di questo paradosso sono probabilmente legati a due fattori: il primo è che ogni giorno negli Stati Uniti muoiono per ferite da armi da fuoco oltre 100 persone e che gli omicidi commessi con armi da fuoco sono 18 volte più numerosi rispetto alla media dei paesi cosiddetti “sviluppati”.
Il secondo fattore è che gli Stati Uniti sono – tra i paesi con più di 20 milioni di abitanti – quello che ospita la più numerosa popolazione carceraria al mondo (circa 500 carcerati ogni 100.000 abitanti).
Questa duplice realtà diventa ancor più spaventosa se si considera che i numeri non sono distribuiti omogeneamente in tutto il paese, ma hanno un’incidenza significativamente maggiore nelle aree cittadine più povere, abitate in prevalenza da uomini e donne appartenenti a minoranze svantaggiate.
Per questa quota della popolazione statunitense i benefici della vita militare sono rilevanti (retribuzione competitiva e, dopo il congedo, buone opportunità di impiego e garanzia di assistenza sanitaria). Per loro torna quindi a funzionare l’antico paradigma: il mestiere delle armi è preferibile a una vita grama e brutale nelle strade di casa propria, dove è altissimo il rischio di morire ammazzati o di finire in galera.
Davide Caramella