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APOCRIFA – De immortalitate (1)

Nelle brillanti righe, giorni or sono sul Corsera, di un noto giornalista a proposito della paura della morte, paura che nello specifico caso raccontato, a ridosso di operazione per tumore, non emergeva avendo il soggetto dato senso alla vita dedicandosi al prossimo, seguiva anche una motivazione: molte persone avrebbero infatti serbato un ricordo di lui per averlo incontrato (e averne avuto beneficio) onde seguiva la domanda: ‘Non è questa, in fondo, l’immortalità?’

La domanda retorica, per sua natura, non richiede una risposta, ma la semplice adesione a quanto espresso nella domanda medesima che nella specie suonerebbe: ‘Sì, certamente in fondo l’immortalità è proprio questa’.

Ma la domanda zoppica e ricorda l’epigrafe posta sull’arco dell’ingresso al cimitero di un paese di mare della Liguria di Ponente che oggi si direbbe laica e inclusiva, ma che al tempo intendeva più sommessamente essere soltanto laica e atea: ‘Fino a quando vivono nella nostra memoria non sono morti’.

Se il parametro è la memoria, allora vediamo (semplificando al massimo): di certo chiunque si ricorda dei genitori e, se ha avuto la fortuna di conoscerli, dei nonni e qualcuno potrà forse risalire ai bisnonni: un paio di generazioni all’interno della medesima discendenza e al di fuori di questa, per amicizia, consuetudine di lavoro o altro, il nastro della memoria probabilmente è anche più corto.

Va da sé che la memoria la quale non fa morire è la memoria collegata alla singola persona defunta -sia essa stata conosciuta direttamente oppure, al limite, per parole tramandate, ma non certo ai fatti della sua vita o al risultato della sua attività: il libro che essa ha scritto o l’opera che ha edificato sono infatti staccati e (fortunatamente) indipendenti dal loro autore sebbene ne conservino o ne riportino il nome al pari delle burocratiche etichette che contraddistinguono gli esemplari imbalsamati al museo di scienze naturali.

I poemi omerici sono tramandati da secoli in quanto trascritti su di un medium, ma dello autore in quanto persona (uno o più che fossero) non esiste memoria alcuna e quindi è morto a tutti gli effetti, ovviamente nella prospettiva di questo punto di vista.

Il medesimo metro vale ugualmente e a maggior ragione se applicato a distanza ravvicinata e di conseguenza la morte del defunto non coincide con la data della lapide, ma è protratta fino al momento in cui scompare anche la memoria dell’ultimo che lo ha conosciuto come persona senza più tramandarlo come tale ad altri.

Non un gran che, per vero, come immortalità, ma fabbricata in modo sostanzialmente non dissimile da quella di cui scrive Erodoto a proposito della guardia del Gran Re achemenide composta, appunto, da immortali (gli Athanatoi, dei quali nel bel museo archeologico della tetra e inquinata Teheran sono conservati splendidi bassorilievi policromi) poiché chi moriva era immediatamente rimpiazzato in modo che l’effettivo totale (diecimila, né più né meno) rimanesse sempre il medesimo.

Di conseguenza, per rimanere all’esempio del cimitero ligure e applicando il criterio fornito dall’epigrafe sopra all’ingresso, quello sarebbe luogo di defunti la cui mortalità è stata prorogata di qualche generazione (se va bene) onde oggi sono in buona parte morti definitivamente. E non diversamente si prospetta anche l’immortalità evocata dal nostro.

Il senso umano intorno all’immortalità (o meno) della persona è collegata fin dall’antichità alla domanda fondamentale e (razionalmente) inesitata insita nella meditazione spontanea del post mortem a livello praticamente universale in tutte le civilizzazioni, credenze e religioni.

Il regno dei morti o dello ‘al di là’ è tema che da sempre affatica l’uomo compreso il dubbio circa la sua stessa esistenza: il grande mistero della morte: fine o passaggio e, se passaggio, verso dove o verso chi?

Dicono che indagare sul regno dei morti sia un modo per esorcizzare la morte stessa nel senso di allontanarne il pensiero incombente, giacché a chiunque è evidente come non si possa scongiurarla nel senso di evitarla, ma è anche possibile o probabile che sia una manifestazione, pur implicita o non dichiarata, di una speranza di qualcosa d’altro dopo la morte.

Le primordiali pratiche di sepoltura del corpo con cibo, armi e strumenti manifestano il pensiero di un viaggio che deve essere intrapreso e di una continuazione della vita dopo la morte in qualche modo intuita o sperata od oggetto di aspirazione.

L’immortalità di genitori e antenati in genere era riconosciuta già nelle devotiones degli antichi costumi religiosi romani (parentes et Manes) e, ancor prima, nell’antico Egitto (Lettere ai morti: i quali defunti abitavano la vita ultraterrena in posizione non lontana da quella degli dèi) come al presente nell’Estremo Oriente (culto degli antenati nel confucianesimo e Kami nella fede shintoista) e in Africa, in particolare sub-sahariana.

L’immortalità è componente della trasmigrazione ciclica o reincarnazione o metempsicosi delle anime (in corpi materiali di qualsivoglia natura) nelle fedi induista, jainista, buddista, islamista dei Drusi oltre che della antica Grecia, ove se ne attribuiva l’insegnamento a Pitagora, mentre la dottrina di Plotino riservava la metempsicosi unicamente ai corpi umani.

Tuttora ci sono correnti di pensiero anche occidentali che la contemplano come l’antroposofia di R. Steiner e New Age.

Tanto solo per osservare come la domanda dell’uomo circa l’immortalità sia generale, di vasto approfondimento e di varia (sebbene non mai soddisfacente) risposta.

LMPD
(Continua)

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