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APOCRIFA – De immortalitate (2)

Come peraltro anche il suo rovescio, secondo l’opinione di coloro che l’anima col corpo morta fanno: l’atomismo di Democrito, uno dei primi scienziati occidentali, porta il razionale Epicuro, che ebbe come maestro un allievo del primo, alla conseguente negazione di una possibilità post mortem per l’individuo dato che anche i suoi (contingentemente personali) atomi finiscono poi a dissolversi nel flusso infinito di tutti gli altri. 

E porta altresì alla nota derubricazione ontologica della morte per cui quando noi siamo, la morte non c’è, e quando la morte c’è, allora noi non siamo più.

Epicuro, il cui nome significa ‘soccorritore’, aspirava ad affrancare i suoi simili dall’ansia della sofferenza, dal duolo della vita e dalla paura degli dèi olimpici antropomorfi e vendicativi cui la credenza del tempo attribuiva difetti analoghi a quelli degli uomini per di più aggravati dall’onnipotenza.

Convinto che non è perciò irreligioso chi gli dèi del volgo rinnega, ma chi le opinioni del volgo applica agli dèi, egli era nel solco del primo teologo occidentale, Senofane, vissuto due secoli prima, che lucidamente aveva contestato l’antropomorfismo religioso di Omero e di Esiodo, ma in ogni modo comune patrimonio delle credenze religiose del tempo (Omero ed Esiodo hanno attribuito agli dèi tutto quello che per gli uomini è oggetto di vergogna e di biasimo: rubare, fare adulterio e ingannarsi… i mortali credono che gli dèi siano nati e che abbiano abito, linguaggio e aspetto come loro… gli Etiopi credono che siano camusi e neri, i Traci che abbiano occhi azzurri e capelli rossi… ma se buoi, cavalli e leoni avessero le mani e sapessero disegnare… i cavalli disegnerebbero gli dèi simili a cavalli e i buoi gli dèi simili a buoi…).

Curioso che Dante ponga Epicuro fra gli eretici e il suo ispiratore Democrito, che ‘l mondo a caso pone, nel limbo unitamente, fra gli altri, a Platone che, come raccontano, di Democrito non voleva neanche sentire parlare tanto lo disprezzava proprio a causa del suo pensiero atomistico. 

Il regno della morte o del passaggio (altrove) dopo la morte ha sempre attratto la meditazione dell’uomo, onde se ne trovano tracce anche nei ‘viaggi’ della mitologia e letteratura (Orfeo, Ercole, Teseo, Ulisse, Enea e Dante) e della religione (San Paolo).

Nella Bibbia, Antico Testamento, l’oltre morte era indicata come sheol (inferi), un luogo sotto terra cui Qoélet (Ecclesiaste, III a. C.) dedica alcune meste, ma inequivoche righe (8,4-6): 

Certo, fino a che si resta uniti ai viventi c’è speranza: meglio un cane vivo che un leone morto. I vivi sanno che moriranno, ma i morti non sanno nulla; non c’è più salario per loro, perché il loro ricordo svanisce. Il loro amore, il loro odio e la loro invidia, tutto è ormai finito, non avranno più alcuna parte in tutto ciò che accade sotto il sole. E poi ancora (8,10): […] perché non ci sarà più né attività né ragione né scienza né sapienza giù nello sheol. 

Lo Sheol ebraico sembra avere una prospettiva del tutto intonata alla morte e dotata unicamente di una parvenza umbratile di vita allo stato larvale (ancora ai tempi di Gesù i Sadducei non credevano ad alcuna forma di esistenza dopo la morte) così come l’Ade greco (la traduzione biblica dall’ebraico al greco a opera dei Settanta fa corrispondere l’Ade allo Sheol) del quale rimane un’efficace e realistica descrizione in pochi e celebri versi dell’Odissea. 

Quando Ulisse, nella discesa in Ade, il regno dei morti, incontra Achille e cerca di consolarlo ricordandogli di essere stato un eccelso eroe e che la sua memoria continua sulla terra raccoglie una risposta tranchant, per nulla eroica, ma molto umana (si intuisce la differenza di tempo e di  consapevolezza fra l’Iliade e la posteriore Odissea): 

Non abbellirmi, illustre Odisseo, la morte! Vorrei invero da bracciate servire un altro uomo, un uomo senza podere che non ha molta roba, piuttosto che dominare tra tutti i morti. 

Della fama conquistata con l’essere stato il primo fra gli eroi guerrieri egli non se ne fa più nulla: sola gioia è la vita, per quanto banale possa essere, ma unicamente al sole e alle stelle.

Il concetto è quello di Qoèlet: meglio un cane vivo che un leone morto, tenendo presente che nella cultura semita il cane era un animale spregevole e che in ogni caso il pensiero non si trova solo in Qoèlet: in un apocrifo aramaico dello Antico Testamento, Storia di Ahikar, risalente al V secolo a. C., la massima è analoga: Una volpe viva è meglio di un leone morto.

Il pensiero greco di un aldilà offuscato e angosciato dal rimpianto per la vita (la vita è unicamente quella sulla terra) per cui anche la condizione più umile e marginale, ma nella vita, è preferibile a qualsiasi altra in morte è simile al pensiero ebraico che però, a differenza del primo il quale almeno per lo più confida, per quel che vale, nella continuazione della memoria del defunto, chiude inesorabilmente anche questo asmatico spazio: […] il loro ricordo svanisce.

Il pensiero greco, strutturato in razionalità stoica davanti ai fatti dell’esistenza umana, arriva a una vetta poetica non diversamente raggiungibile, a parole o immagini, con la risposta che, nell’Iliade (VI libro), il licio Glauco fornisce all’argivo Diomede:

Tidide magnanimo, perché (mi) domandi la stirpe?

Come infatti le stirpi delle foglie, così (sono) quelle degli uomini:

esse infatti alcune il vento abbatte verso il nero suolo, altre nutre la selva in fiore nel tempo di primavera;

così le stirpi degli uomini: una nasce, l’altra scompare.

Duemila anni or sono, nella storia umana invero non sono poi neanche molti, l’ultimo profeta di Israele ha infranto la variegata immaginazione, positiva o negativa, e rivelato con parole uniche uno scenario unico nella sua eccezionale singolarità. 

Un Dio che, se accettato, ha il potere di fare diventare l’uomo suo figlio (v. Prologo di Giovanni) adduce alla creatura la speranza della continuazione della vita terrena dopo il passaggio attraverso la morte: e questa è propriamente quello che l’uomo, quantomeno taluno fra gli uomini, intende per immortalità.

Ovviamente nessuno -salvo Uno (per chi vi presta fede)- è mai tornato indietro a riferire o comunicare qualcosa in proposito e quindi tutti sono, e rimangono, liberi di pensare o non pensare, di cercare un senso o di attenderlo o di ritenerlo inutile, di credere a Qualcuno o all’Ade o al niente oppure agli atomi che fluttuano nello spazio (la visione di Epicuro sull’argomento è sempre insuperata per chi non ha tentazioni metafisiche o semplicemente di-spera).

L’umanista Pietro Pomponazzi, professore di filosofia all’Università di Padova fra il ‘400 e il ‘500, sostenne nel suo Tractatus de immortalitate animae che l’immortalità dell’anima non può essere dimostrata razionalmente onde solo per fede e non per ragione si può confidare che l’anima viva (coloro che camminano per le vie dei credenti sono fermi e saldi): pensiero assai pericoloso in quei tempi e infatti, accusato di eresia, ebbe la fortuna di essere difeso dal veneziano cardinale Pietro Bembo, a sua volta umanista, mentre copie della sua opera finivano nel fuoco in vece sua.

Ma è in sostanza parte di quello stesso pensiero che, e nemmeno poi con parole tanto diverse, gli autori evangelici registrano e scrivono abbia insegnato Gesù.

 

LMPD

(la prima parte dell’articolo è stata pubblicata sul n. 213)

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