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APOCRIFA – La cultura sghemba

Nelle attuali versioni, tecnicamente ricostruite per la miglior resa ottico-cromatica, di alcuni famosi cartoni animati della Disney è inserito un curioso disclaimer, una dichiarazione di esonero di responsabilità, atto ad andare a coprire, nelle intenzioni, rappresentazioni negative e/o trattamenti negativi di persone e culture…Piuttosto che rimuoverne il contenuto (operazione peraltro praticamente impossibile se non a costo di rendere inservibile la pellicola), vogliamo riconoscerne l’impatto dannoso, impararne una lezione e avviare una conversazione per creare insieme un futuro più inclusivo.

Il finale, in particolare, è degno di essere custodito nel bagaglio di un qualsivoglia attuale politico di mezza tacca, pronto per essere declamato in ogni occasione a prescindere da quello che poi (non) seguirà.

In ogni modo oggetto della campagna revisionistica (mi sembra che da qualche parte, forse in Inghilterra, questi cartoni siano addirittura stati vietati ai minori di 7 anni) sono film del periodo ’40 -’70 fra cui, con la complicità di un nipotino cinefilo, ho rivisto Peter Pan (1953), Il Libro della giungla (1962) e gli Aristogatti (1970) ma, devo anche riconoscere, senza neanche avvertire particolari fastidi psicologici o sensi di colpa.

Così come ho avuto tra le mani recentemente un libro di Enzo Biagi che, in un reportage dagli USA, faceva riferimento al negro, ma ho continuato a leggere senza affrettarmi a bruciarlo.

Però poi, interessato dalla domanda che ponevo a me stesso, ho provato a riflettere: i pellerossa, l’orango re Luigi, i gatti siamesi dagli occhi visibilmente cino-orientali, il negro di Biagi sono in qualche modo offensivi? E come precludono la declamata e molto ricercata inclusione?

Penso la risposta sia, a prescindere da strumentalizzazioni ideologiche, fondamentalmente in base alla cultura-sensibilità (personale e, più ancora, collettiva) e alle condizioni del contesto politico-sociale.

Da noi in Italia non ricordo di avere mai sentito usare il termine ‘negro’ in senso dispregiativo se non in questi ultimi anni caratterizzati dal riflusso di ideologie spregevoli che si confidava scomparse con il progredire della civilizzazione. Ma anche i rifiuti ritornano, al pari delle epidemie.

Diverso, ovviamente, è là dove invece per esempio il problema razziale, come negli USA, esiste in una società necessariamente multi-composita e conflittuale e si verte intorno a diritti: la forma non è mai da separare dalla sostanza (se no è ipocrisia), ma certo esse sono due cose diverse e confonderle può produrre vaneggiamenti.

Specialmente se l’attenzione di chi opera o interviene si rivolge non a risolvere il problema attuale, che esprime la domanda d’intervento, ma va a flottare all’indietro nel tempo senza alcun criterio razionale o senso della storia la quale, tra l’altro, comprende l’evoluzione del pensiero e dei costumi e senza la considerazione di questi non risulta nemmeno (quasi) comprensibile.

Così ora ci si può aspettare che appiccichino il disclaimer anche ai film di Ford (per via dei pellerossa: vocabolo allo stato non più usabile e soppiantato da ‘nativi’) o a quelli tratti dai libri di Fleming (per via degli infidi e maliziosi orientali), ma questo è il minore dei mali: solo una delle idiozie della devianza del politicamente corretto, ma non delle più pericolose.

Perché proprio il politicamente corretto, originato come attenzione sociale e di opinione al rispetto formale (e sostanziale) verso il prossimo e in particolare verso determinate categorie discriminate, in modo da garantire un comportamento giustamente privo di condizionamenti pregiudiziali (per razza, etnia, religione, genere, età, orientamento sessuale etc o per disabilità fisiche o psichiche della persona) è poi divenuto, nell’uso, uno strumento ambiguo e oppressivo-repressivo nei confronti degli avversari e dei terzi in genere.

Prova che le buone intenzioni non sempre portano al bene, specialmente quando sono gestite con spirito settario e aprioristico.

Accreditato per lo più a intellettuali di sinistra USA e ad ambienti di cultura universitaria e quindi a larga parte del partito democratico è stato, il politicamente corretto e la sua velenosa eredità, una delle carte vincenti della passata competizione elettorale di Trump che fece breccia, senza particolari difficoltà, nell’immaginario della media classe bianca impoverita e impaurita presentandole un obiettivo agevole da odiare: gli intellettuali, la ‘cultura’, gli artisti, i politici avversari e compagnia preferibilmente liofilizzati in prospettiva settaria di costumi depravati e pedofili.

A parte lo scimmiottamento del fenomeno USA in chiave tipicamente provinciale che ha condotto, per esempio da noi, a contorsioni semantiche di valore aggiunto discutibile e a non diversi risultati pratici: il diversamente abile è certo termine apparentemente più gentile di minorato (poi promosso ad handicappato, quindi portatore di handicap e infine a disabile), ma quello che più importa è quanto la società fa e dispone per colui: se gli consente condizioni almeno sufficienti per essere cittadino nonostante o nei limiti del suo stato; così lo zingaro o nomade è diventato rom o sinti, ma non si è cambiato il suo status etc. L’importante, come sempre, è accapigliarsi nell’ipocrisia, non lavorare sui contenuti.

Il politicamente corretto applicato alla storia apre una prospettiva che a prima vista suscita ilarità o sconcerto per la evidente dabbenaggine dei suoi padrini, ma che, indice di una mentalità in ogni caso esistente e operante, deve fare riflettere circa la facilità che incombe sulla mente umana, in particolare d’istanza radicale, di deviare e perdersi impantanandosi.

Il fatto che una scuola superiore nel Massachusetts (peraltro di mediocre reputazione didattica) abbia tolto dalla sua biblioteca e cancellato dal programma l’Odissea non è un evento folkloristico né lo sono le squallide trovate di quelle Università statunitensi che (oltre ad avversare le statue di Augusto e Marc’Aurelio poiché colonialisti) cancellano testi classici e moderni ritenuti responsabili di esporre idee non conformi o gradite alle proprie, vale a dire di coloro che governano pro-tempore quelle istituzioni e si arrogano il diritto di imporre quale cultura dare: è un atto politico di ignorante arroganza non dissimile da quello che, nei Paesi a governo dispotico, negando la libertà di pensiero, di insegnamento e di studio, costruiscono istituti universitari a senso unico (lungimirante la recente scelta strategica di un Paese dell’Unione europea di ospitare la sede staccata di un’Università cinese).

Da sempre il potere dispotico è incline a far bruciare i libri (e possibilmente gli autori) non graditi alla sua politica e persegue l’obiettivo di indottrinare i propri armenti a suo uso e consumo: la differenza è che un tempo l’operazione era meramente eseguita, mentre ora la si realizza, ma si sente il dovere di motivarla con più alti indirizzi intellettuali ed etici.

Politicamente corretto e del tutto ipocrita, appunto.

Questo è uno degli aspetti della schiavitù di oggi e di domani. Altro che fare le pulci retroattive a Via col vento!

Basti immaginare a quanti lavorano all’intelligenza artificiale e a cosa potrebbe accadere se qualcuno di questi geni arrivasse ad avere voce in capitolo per qualche futuro algoritmo di carattere culturale: meglio darsi da fare e iniziare subito a raccogliere la biblioteca in casa propria, come fecero le Abbazie al tempo delle invasioni barbariche salvando la civiltà che gli invasati adesso contestano.

Se ci si vuol rendere conto de visu di questo imbarazzante (per l’umana intelligenza e il suo futuro) scenario è, per esempio, istruttiva una visita al sito di DisruptTexts, il cui titolo è già un programma e la cui mission è intercettare le opere che non si attengono alle direttive vigenti (le loro).

Ovviamente, come si conviene al censore, costui lavora per il bene di tutti e collabora attivamente a far sorgere il sol dell’avvenire con declaratorie a effetto:
All students deserve an education that is inclusive of the rich diversity of the human experience. Lasciando naturalmente a parte che dalla ricca diversità sono già stati espunti i (tanti) soggetti non approvati e quindi cassati.

Ma leggere dal vivo e in originale la presentazione di questo motore civile per la salvaguardia del rispetto altrui è più efficace che commentare:
As our mission statement says, #DisruptTexts is “a crowdsourced, grassroots effort by teachers for teachers to challenge the traditional canon in order to create a more inclusive, representative, and equitable language arts curriculum that our students deserve.” We believe that education, and literacy in particular, can be transformative. Through a more equitable curriculum and antiracist pedagogy, we believe that we can effect a more just world. All students deserve an education that is inclusive of the rich diversity of the human experience. They deserve one that introduces them to and affirms the voices both inside and outside their individual lives.

LMPD

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