L’APPROFONDIMENTO – Il cinema ritrovato
Il cinema è, fra le forme artistiche cui si rivolge la fantasia e l’intelligenza dell’uomo, la più recente (fine ‘800) altresì denominata ‘settima arte’: basandosi sul movimento riprodotto concreta una forma di narrativa normalmente di approccio più agevole o meno complesso rispetto alla lettura, ma in grado di ‘parlare’ ancor più direttamente allo spettatore (lettore).
Come ogni altra cosa esso può rivelarsi assolutamente inutile oppure elevarsi a offrire esperienze e sensazioni di valore che, in virtù del mezzo tecnico costituito dal film, possono agevolmente essere riproposte nel tempo.
Con il titolo de ‘Il Cinema ritrovato’, pubblichiamo ancora alcune pennellate sulla scuola francese (storicamente sorta con gli inventori Lumière) a cura di un cinèfilo che la conosce sia nella cultura generale sia nei suoi protagonisti.
IL CINEMA RITROVATO
Le chat (Le chat – L’implacabile uomo di Saint Germain), di Pierre Granier-Deffere (1971)
Tratto da un romanzo di G. Simenon.
Clemence e Jiulien convivono da anni nella periferia di Parigi, non si amano più e quasi non si parlano da lungo tempo, si odiano. Jiulien riserva la sua tenerezza a un gatto e Clemence, ex trapezista invalida, ne è violentemente gelosa tanto da ucciderlo. L’uomo se ne va, poi torna, ma da quel momento non si parlano proprio più, comunicando solo con bigliettini. La donna si ammala e muore, lui si uccide nella solitudine.
Intorno la periferia parigina della piccola gente, fatta di vecchie villette che stanno scomparendo per fare posto a casermoni anonimi. La terribile coppia, interpretata da Simon Signoret e Jean Gabin, funziona splendidamente.
La disperazione, la solitudine, l’odio fra i due è reso mirabilmente dai dialoghi, ma ancora di più dai silenzi, dai gesti e sguardi dei personaggi, colti nelle minute abitudini e meschinità.
Basta che i due attori, Signoret e Gabin, appaiano sullo schermo e lancino uno sguardo: magicamente tutto diventa umanissimo e vero ed essi riescono a esprimere l’avversione profonda e radicata che divide e unisce i due personaggi e che ci si palesa come un sentimento puro, senza ombre né contaminazioni.
Per questi ruoli i due grandi attori vinsero l’Orso d’argento al Festival di Berlino del 1971.
Un coeur en hiver (Un cuore in inverno), di Claude Sautet (1992)
Maxime e Stephane sono liutai e amici, l’uno l’amministratore e l’altro l’artista: Maxime ha una storia importante con Camille, giovane e affascinate violinista, e Stephane schivo e riservato la ignora: ma Camille ne è attirata, Stephane sembra ricambiare poi si ritrae e lascia che ogni cosa finisca compresa l’amicizia con Maxime.
Tutto qui, ma tutto magico: una delle geometrie di sentimenti più sublimi mai rappresentate al cinema.
Il triangolo fra Maxime, Stephane e Camille è narrato con mano leggera e con il sussurro dei sentimenti, tratto tipico del grande regista.
Restiamo rapiti a ogni sguardo o gesto di Camille, sempre travolti dalla beltà dei suoi occhi (la nostra amata Emanuelle Beart), sublimemente e inesorabilmente femmina. Daniel Auteuil (Stephane) è straordinario nel rappresentare la reticenza emotiva del suo personaggio.
Reticenza ad amare non come atto di vigliaccheria, ma come necessità di ibernare un sentimento irripetibile affinché si conservi per sempre.
Leone d’argento a Venezia (1992) e Premio Cesar per la miglior regia (1993).
En cas de malheur (La ragazza del peccato), di Autant-Lara (1958)
Banalmente tradotto dal originale “En cas de malheur, In caso di disgrazia”.
Un celebre avvocato parigino di mezza età (J. Gabin) viene interpellato da una ragazza (B. Bardot) che gli si offre in cambio della sua difesa in un processo per rapina.
L’uomo s’innamora perdutamente e vorrebbe addirittura abbandonare la moglie (E. Fauillere), donna intelligente e comprensiva, per andare a vivere con la giovane che è rimasta incinta di lui.
La ragazza però viene uccisa da un ex amante (F. Interlenghi) e l’avvocato rientra nei ranghi. Tutto qui, ma è tutto ciò che concerne l’incontro/scontro degli universi maschile e femminile.
Tratto da En cas de malheur (uno dei più belli romanzi di Simenon) è anche uno dei migliori film di Claude Autant-Lara (Truffaut lo considera il migliore).
Il tema è ricorrente: l’amore di un uomo maturo, ben sistemato, per una ragazza troppo giovane e troppo leggera che rappresenta l’eterno femminino.
Per citare Renoir “È l’eterna storia: lei, lui e l’altro. Lei è una brava ragazza; è sempre sincera, mente tutte le volte”.
Protagonisti due miti del cinema francese: il grande Jean Gabin, che ci incanta ogni volta che ammicca, si muove, ci parla dallo schermo, e la fulgida Brigitte Bardot la quale come sempre ci fa sognare e soffrire ogni volta che posiamo lo sguardo su di lei.
Tutto si svolge in modo elegante, asciutto, essenziale, scarno e perfino banale, fino al dramma e poi all’epilogo: il rientro nei ranghi e nelle regole della buona borghesia.
(la prima parte di questo articolo è stata pubblicata nel precedente n. 154)
Antonello Nessi