L’APPROFONDIMENTO: La medicina ayurvedica. Leggere il sintomo… o il corpo?
La medicina occidentale ha raggiunto grandi frontiere di specializzazione, sappiamo guardare nell’infinitamente piccolo. Ogni organo o patologia trova il suo massimo esperto, l’esperto di quel dettaglio. La nostra scienza separa.
Eppure, in qualche modo, l’universo unisce: siamo uno.
Le culture orientali ne sono maestre. Anche nel campo della medicina, esse non guardano innanzitutto il singolo organo o sintomo ma l’uomo, il paziente: ne leggono il corpo, la costituzione, l’energia che lo anima. Terra, acqua, aria… le sue energie sottili, il suo modo di vibrare col cosmo, la sua sintonia -e con quali- elementi naturali. E con essi curano. Curano con la natura. Curano anche la mente.
E’ un sapere che a noi giunge inconsueto. La medicina ayurvedica affonda le sue radici nell’Oriente indiano di 5000 anni fa. In un mondo che ha un retroterra culturale e mentale così diverso dal nostro: come proporre in noi un retroterra che ci consenta di accostarci realmente alla medicina orientale? Ed è possibile farlo?
Twain Shall Meet – Eppure, i due si incontreranno
Never the twain shall meet è un’espressione idiomatica usata per significare che due cose o persone sono a tal punto differenti da non potersi incontrare, coesistere. Rudyard Kipling¹ scrisse un giorno: “East is East and West is West, and never the twain shall meet, L’Oriente è l’Oriente e l’Occidente è l’Occidente, e i due mai s’incontreranno“. Vero è che, nel seguito del testo, egli modifica la sua affermazione, ammettendo che “la differenza scompare quando due uomini forti si trovino a faccia a faccia, dopo essere venuti dalle estremità della terra”.
Il mio cammino iniziò molti anni or sono. Avevo avviato studi medici, nutrita da un profondo interesse nel comprendere i legami tra mente e corpo (esperta, fino ad allora, nell’ingegneria delle capacità mentali, ma qualcosa ancora sfuggiva). Durante gli studi venni a contatto anche col mondo orientale e con la pratica di meditazione: Vipassana, secondo il ramo più antico del buddismo theravada. Iniziai con un ritiro di dieci giorni, secondo la più antica tradizione orientale: nobile silenzio e sveglia alle quattro di mattina. Passavamo la giornata seduti su un cuscino, in silenzio, nella grande sala, ad ascoltare il respiro. Poche istruzioni, nessuna teoria. Il nostro compito appariva banale ma al tempo stesso, di ora in ora e di giorno in giorno, estremamente difficile. Ogni sera, il Maestro teneva un discorso: niente teoria, medicina o massimi sistemi. Ci raccontava delle storie, spesso della sua vita e del suo cammino, e anche delle innumerevoli difficoltà ch’egli aveva avuto agli inizi, con quella straordinaria leggerezza che sapeva porre negli argomenti difficili. Intanto, ci parlava di come affrontare e gestire in modo “abile” i diversi inconvenienti (stati d’estasi o noia più completa, mente inquieta o continuamente ondeggiante e pervasa da pensieri o forse dolori fisici) che attraversavamo nello svolgere il lavoro.
Scoprivamo dentro di noi uno spazio nuovo, possibilità nuove. E il mattino dopo, si ricominciava.
Solo dopo parecchi giorni di questo lavoro, iniziava il cammino. E di giorno in giorno, qualcosa accadeva.
Per me fu come un colpo di fulmine, un amore a prima vista. Iniziai ad avere la percezione di come ci fosse un potenziale, uno spazio inesplorato nella mente e nel corpo. E mi sentivo attratta senza esitazioni nel proseguire.
Il medico occidentale, con cui svolgevo gli studi di medicina, mi scoraggiò: “Gli Orientali iniziano fin da piccoli, noi non potremo mai raggiungere i loro livelli, dobbiamo usare strumenti diagnostici” e mi invitava a collegarmi, per esempio, a uno strumento di bio-feedback per poter realmente comprendere cosa stava accadendo e se o quali risultati stavo ottenendo.
No. C’era in gioco qualcosa di profondo. Di fronte al quale ero disposta a rinunciare a ogni obiettivo, desiderio, scopo, risultato. Iniziai a praticare, e basta. Tutti i giorni e un ritiro dopo l’altro: per mesi, anni. Prendevo i precetti e sedevo sul cuscino, essendomi spogliata gradatamente da ogni “meta” per la quale forse, inizialmente, avevo intrapreso il cammino. Si dice che nulla si realizza secondo le “nostre” intenzioni. Fu un cammino pratico. Di esercizio, del corpo, della mente, dell’esperienza, del sentire.
Di mese in mese e di anno in anno questo andava trasformando molte cose: la salute, il corpo, la mente; gli accadimenti. Lo sguardo. Difficile spiegare.
Gradatamente iniziò a sorgere spontaneo (forse, la mia innegabile inclinazione allo studio) anche l’interesse per gli studi: iniziai a leggere libri di meditazione; poi i testi dei monaci della foresta thailandese; gli antichi testi in lingua pali… la psicologia, la medicina… Ciò che leggevo fluiva come una conoscenza già presente in me. Quasi, mi consentiva di ritrovare o dare un nome (unire, approfondire) i vari “pezzi” che erano per me conoscenze dirette, ancor prima che teoriche.
La mente percettiva
Così, dunque, nasce in Oriente e per gli Orientali questo sapere: affonda le radici in una mente che ha modalità e qualità del tutto differenti dalle nostre: non migliori né peggiori, ma senz’altro differenti. Così nasce: per anni, seduti su un cuscino.
Il fondamento: aniccia o cambiamento
“Keep knowing aniccia” ripeteva continuamente il Maestro mentre svolgevamo l’esercizio, con la sua voce ferma e gentile. Aniccia è il termine dell’antica lingua pali che significa: cambiamento, mutamento, vibrazione. Senza comprendere questo termine non possiamo comprendere nulla della medicina, filosofia, psicologia, spiritualità… orientali.
Il cambiamento (o vibrazione) è inerente a ogni fenomeno. L’Oriente arrivò a descrivere in modo precisissimo la più piccola particella, non più particella ma onda, vibrazione: la kalapa, che sta alla base della materia.
E’ straordinario come questa e altre descrizioni precisissime abbiano trovato in anni recenti conferma da parte delle più avanzate avanguardie della chimica e fisica quantistica.
Densa, compatta, lenta, fluida, accelerata. Tutto è vibrazione. Tutto. Questa (conoscenza e capacità percettiva) è alla base della medicina ayurvedica: Aniccia, la vibrazione, il cambiamento.
Ayurveda è una parola composta da ayur, che significa vita o longevità, e veda che significa conoscenza percettiva (o più impropriamente tradotto: conoscenza ‘rivelata’ poiché emerge innanzitutto dall’interno, dal sentire, dopo che la mente è divenuta ferma e silenziosa, e non viene inizialmente ‘appresa’ da un libro). Ayurveda è la conoscenza delle leggi chimiche e fisiche che regolano la vita (e la capacità di riequilibrarle) attraverso la percezione dello squilibrio energetico che ne sta alla base e la sua correzione. Dolce, delicata. Eppure incisiva. Come far ripartire una ruota che si è fermata: forse non dovremo martellarla o arrabbiarci con essa, ma imprimere una leggera spinta. Con la giusta pressione, il giusto grado. E riparte. Spontaneamente.
Sono stupefacenti i risultati che si possono ottenere, da ogni quadro clinico di partenza.
Cosa, noi, possiamo prendere?
Dunque: anni di meditazione o nulla? Prendere o lasciare? No, non è questo il punto. Questo, è solo per comprendere il retroterra. Senza aver compreso questo, ogni studio, fede cieca o rigetto restano immotivati.
Il succo della medicina ayurvedica non sta nel Triphala (miscela di erbe usata a scopo curativo) così come il succo della nostra medicina non sta in un Aulin o un Actonel. Sta nella competenza profonda del medico a leggere e comprendere (coi suoi strumenti e la sua cultura) quel corpo, quella malattia.
Come la nostra medicina non consiste nel farmaco. Così neppure la loro consiste nelle erbe. E l’utilizzo dell’uno o delle altre può trovare giustificazione solo nella sapienza del medico che le conosce, ne conosce usi, opportunità, valuta, sceglie.
I veri pilastri della medicina ayurvedica non sono l’uso di preparati naturali, olii essenziali o trattamenti all’intestino. Sono innanzitutto una lettura e percezione del corpo, con strumenti diversi dai nostri. E’ una lettura che si caratterizza per il (sapiente) sguardo d’insieme dato all’individuo (prima che a un solo organo) e per l’assenza di diagnosi strumentali (esami del sangue, radiografie, RM etc).
Le leve d’azione principali sono:
• l’uso del cibo;
• piccole abitudini di vita che per quell’individuo e la sua malattia fanno realmente la differenza;
• elementi che riguardano la mente e l’interiorità.
Preparati, massaggi, erbe, olii fanno parte a volte di accessori, a volte anche di un folklore, non sempre ben compreso; affascinanti magari, ma non essenziali. Non è lì il punto. Un’erba potrebbe essere sostituita da un’altra o un cibo con uno differente (magari anche della nostra terra). Il punto è: come vibra la persona? Di cosa ha bisogno? Di quale tipo di vibrazione? E come per essa la possiamo ricreare? Questa conoscenza giunge a livelli precisissimi. Il risultato appare ineluttabile.
Cosa, dunque, possiamo cogliere?
Innanzitutto, possiamo cogliere lo spunto di porre maggior attenzione e rispetto all'”insieme”, al tutto. Possiamo semplicemente ricordarci: “Già, esiste anche un’altra visione delle cose”. E se lo troviamo di beneficio, esserne ispirati. Magari semplicemente ponendo più attenzione alla persona che abbiamo di fronte e al suo insieme, pur secondo le nostre conoscenze e abitudini mentali. Però prestiamo più attenzione, una consapevole attenzione. Magari guardando e ascoltando la persona con più curiosità mentre ci parla. Che impressione ne riceviamo? Fisica, intendo?
Poi, possiamo sperimentare nel soggetto la lettura delle tre tipologie (che costituiscono la base della diagnosi ayurvedica: Vata, Pitta e Kafa²), da integrare alla comprensione che la nostra capacità di medici o uomini occidentali ci dà di quella persona o malattia o problema. Possiamo avere una chiave in più di lettura. Nei suoi grandi tratti, questa lettura è accessibile e del tutto efficace.
Poi, se i primi approcci con l’uso delle tre tipologie ci sembra avere un’utile rispondenza, possiamo provare ad applicare (o suggerire) abitudini e alimenti che “dovrebbero” essere adatti a quella persona. Dovrebbero. Ma poiché si tratta di cibi e modalità globalmente sani (OPP cibi e modalità non nocivi), non ci sono grossi rischi: o nessun risultato particolare… o infiniti e stupefacenti risultati. Se ciò appare, possiamo essere incoraggiati verso uno studio più approfondito. Integrando (mai separando) queste conoscenze alle nostre. Ho conosciuto grandi maestri. E ne sono grata. Di essi non mi rimangono molte parole, ma l’esempio, la pratica.
Faccio mie le parole del professor Vincenzo Franchini, urologo chirurgo, mentre racconta degli studi di specializzazione all’Università di Pavia: “Il cattedratico, Savino Fantoni, usava dire: ‘l’uomo è un animale chirurgico‘ e su ciò basava la sua pignola richiesta di conoscenza dell’anatomia chirurgica, normale e patologica. Il chirurgo lento, per lui, è semplicemente un uomo che non conosce il territorio che sta esplorando, tituba di fronte a ogni minimo ostacolo che il cammino gli interpone e sottopone il paziente a stress chirurgico inaccettabile, che si riflette nel processo di guarigione, chirurgica e psichica. Abbracciai questa filosofia totalmente”.
Ebbene, come il medico o chirurgo occidentale si muove a perfetto agio nel proprio territorio, la chirurgia di quell’organo, così il medico orientale si muove a perfetto agio nel campo della percezione e vibrazione. Del corpo, degli elementi, del cosmo. E con mano certa e perfetto calibro, combina gli elementi. Bilanciando. Trasformando.
Innumerevoli sono le scoperte che oggi la scienza occidentale conferma, già presenti da millenni nel sapere orientale, e le guarigioni che la medicina occidentale definirebbe impossibili.
E’ possibile un incontro? Twain shall meet. Eppure sì, i due s’incontreranno…
Elena Greggia
Orientalista e ricercatrice, Milano
¹ Rudyard Kipling (Bombay 1865 – Londra 1936), poeta e scrittore britannico, premio Nobel per la letteratura 1907.
² Ne parlerò in un prossimo articolo.