L’APPROFONDIMENTO – Meditazione e guarigione fisica ed emotiva. Il racconto dell’ameba
(la prima parte di questo articolo è stata pubblicata nel precedente numero 146)
Reich descrisse il processo che porta a costruire tali rigidità.
Accade quando, nell’ambiente esterno, vi è uno stimolo negativo (o percepito come tale) molto forte o reiterato.
Se lo stimolo esterno è percepito come buono, piacevole, amico esso genera fiducia, apertura, sorriso; se è percepito come spiacevole, doloroso, freddo, buio, stretto, minaccioso genera chiusura, contrazione, diffidenza, sfiducia, fuga, ostilità.
Reich descrisse il processo in modo efficace partendo dall’analisi di funzionamento dell’essere vivente più semplice: la cellula o ameba. Se l’ameba è posta in un liquido tiepido, confortevole, piacevole, nutriente si espande e nel tempo si riproduce (l’ameba si riproduce per scissione). Se nel liquido viene posto uno stimolo ostile (per esempio acqua fredda, scossa elettrica) l’ameba si contrae e poi torna a espandersi quando lo stimolo che induce sofferenza cessa.
Se la sollecitazione negativa sarà persistente, continua, prolungata e non alternata a stimoli piacevoli, l’ameba rimarrà contratta fino a irrigidirsi e fino a morire.
Il processo attraversa delle fasi.
Di fronte alla sollecitazione negativa dapprima c’è una semplice contrazione; se la sollecitazione negativa persiste, la cellula tenta di fuggire con l’allontanamento; se non può allontanarsi, si contrae su se stessa; nel momento in cui anche questo tentativo di difesa viene a fallire, la cellula tenta di sfuggire alla situazione espandendosi rapidamente e attaccando l’aggressore. Ma se non c’è possibilità di fuggire perché tutto l’ambiente è saturo di stimoli negativi, allora, dopo questo ulteriore tentativo, la cellula si contrae nuovamente su se stessa, mantiene la massima contrazione possibile e non si espande più.
Per esempio, nel blocco a livello oculare risultano bloccati i muscoli che servono a muovere gli occhi per cui viene impedito il “guardarsi attorno”: una persona che ha paura, che è terrorizzata dall’ambiente circostante, evita di guardarsi attorno e tende a fissare lo sguardo; ciò si può osservare per esempio nel bambino sgridato, impaurito, il cui sguardo è fisso, sfuggente, è uno sguardo che non vuole vedere.
I blocchi più comuni a livello degli occhi sono: individui che guardano e non vedono; individui che vedono, ma non guardano; individui che non guardano e non vedono.
Quando esiste un blocco vero e proprio, l’individuo, anche quando scelga di “vedere”, non ci riesce, ha bisogno per far ciò di un aiuto esterno che lo solleciti a mobilizzare la corazza.
Un altro modo di “guardare e non vedere” consiste nel fissare lo sguardo sui particolari, per cui, mentre si nota ogni dettaglio, si perde la visione d’insieme. Il blocco agli occhi si traduce in un’incapacità di essere consapevoli del rapporto; l’individuo, cioè, non è cosciente del fatto che quanto accade fra lui e l’altro è la risultante di una relazione in cui la sua azione e la sua emozione, e l’azione e l’emozione dell’altro, interagiscono e si modificano a vicenda.
Tale perdita di consapevolezza si esprime alternativamente o nella colpevolizzazione continua di sè, per cui l’individuo si sente sempre responsabile di ciò che l’altro fa, o nella colpevolizzazione continua dell’altro per cui manca ogni senso di responsabilità personale nel rapporto.
Secondo le condizioni del blocco, tali disturbi possono andare da una sfumatura lieve a un disturbo grave. E’ interessante notare, osserva Reich, come nel corso della terapia fisica il semplice sblocco fisico di tale rigidità porti automaticamente a un cambiamento della persona, senza alcun bisogno di razionalizzazioni.
Reich, in ogni caso, lavorava per lo più su entrambi i piani: fisico e psicologico.
Dalla tensione… alla guarigione
Via via, nelle fasi di crescita, possono poi determinarsi blocchi alla bocca (nell’età della suzione), poi alla gola, al collo, alle spalle, alle braccia e alle mani che sono mezzi di comunicazione, al torace, in cui è contenuto il cuore.
Con questo blocco, per esempio, l’individuo afferma: “io ce la faccio da solo, non ho bisogno di te”; il torace bloccato nell’ispirazione forzata appare simile a una roccia, ma nel momento in cui si riesce a smobilizzarlo viene fuori un dolore enorme.
Se il bambino è arrivato a dire: “io ce la faccio da solo, non ho bisogno di te” nei confronti dell’unico oggetto di amore della sua vita, sua madre, è un bambino che sta vivendo una situazione estremamente drammatica.
Un errore che noi commettiamo e non ci fa vedere in tempo come si strutturano i blocchi nel bambino, consiste nel considerare i suoi problemi “piccoli”, come piccolo è lui, ma questo non è assolutamente vero.
Il dolore nel bambino per una perdita affettiva è molto più drammatico che in un adulto; dal momento che il bambino non è ancora corazzato, questo dolore è infinitamente grande perché egli è totalmente esposto a questa sofferenza senza alcuna difesa, trafitto in pieno.
Così, per esempio, anche la paura che un bambino può provare è molto forte; un bambino che teme il buio vive un’angoscia pari a quella di un adulto che abbia una pistola carica puntata alla tempia: pertanto è estremamente negativo sottovalutare le paure del figlio.
Per poter confortare il bambino non è indispensabile conoscere le tappe di sviluppo del pensiero infantile, ma è necessario accettare di entrare in contatto con la sua disperazione.
Questo fu un insegnamento centrale in Reich: sviluppare questa capacità. Spesso tendiamo a sottovalutare i problemi dell’altro per due ragioni: non vogliamo entrare in contatto con i nostri problemi, analoghi ai suoi, seppelliti sotto la nostra corazza; inoltre, se prendessimo coscienza dell’entità delle emozioni dell’altro, dovremmo riconoscere l’enorme responsabilità che abbiamo nei suoi confronti.
“Bisogna quindi lavorare per modificare il carattere, soggettivo e collettivo – scrisse Giorgio Salmoni, psicoterapeuta reichiano che conobbi personalmente negli anni ’90, quando già da tempo praticava meditazione – ed è un lavoro che è già iniziato. Nel mondo oggi esiste una quantità enorme di movimenti che tendono a riportare nell’uomo la consapevolezza di sè, il senso dell’amore collettivo. Nel nostro tempo tutto questo è già iniziato e continua a crescere. Ed è per questo che io ho molta fiducia“.
Elena Greggia, orientalista e ricercatrice