EDITORIALE:
Le dimissioni, particolarmente in politica, sono un atto visto con particolare sospetto ed utilizzato con la cautela proporzionata alla sua specifica funzione per il motivo che possono (anche) venire accettate.
Salvo che non siano proprio vere, ci sono anche queste, le dimissioni ideali sono quelle (rappresentabili sinteticamente in un balletto) destinate ad essere respinte, da parte del soggetto destinatario, con proteste più o meno vibrate di valutazioni positive circa il mittente e di apprezzamento tali nei suoi confronti da chiederne l’indispensabile ripensamento che (prontamente) avviene secondo l’auspicio e non di rado sotto l’egida dello spirito di servizio.
Ma non sempre ci sono le condizioni di tempo e di luogo per un siffatto esercizio ove, invece, la misura della forza di gravità, nello specifico, sia tale da far prevedere -anziché un volo orizzontale guidato- uno più prosaicamente verticale e verso il basso.
Ora, nel laboratorio sempre più vivace emerso dal fallimento della politica, e nel quantomeno apparente disinteresse della stessa o sua incapacità di reazione, sono in corso di individuazioni formule attendibilmente più efficienti o di maggior respiro strategico: le dimissioni con riserva (si potrebbe pensare, in analogia, a qualcosa come il patto di riservato dominio).
La prospettiva d’uso è immaginabile, ai sensi della par condicio, in modalità bilaterale vale a dire sia da parte del mittente (volto alla tutela preventiva dello stesso) sia da parte del destinatario (volto, del pari, alla sua tutela preventiva per il tramite della conservazione contingente dello status quo in attesa di tempi migliori).
Come (quasi) sempre il problema da risolvere (o non risolvere) ruota sostanzialmente intorno alla assunzione (o non assunzione) della responsabilità e non da oggi.
Un saggio professore di greco non digiuno di filosofia andava al cuore di questo problema commentando: ‘Quella signora è quasi mia zia’ e l’indimenticabile Enzo Biagi ha scritto: ‘Sì, la signora è incinta, ma solo un poco’.