EDITORIALE – Buone Vacanze
La città si svuota come anche, nel calendario, l’elenco dei giorni del mese corrente e già s’intravede Agosto, l’ottavo mese dell’anno un tempo dedicato a Cesare Augusto, da sempre deputato alle ferie estive.
Gli abitanti emigrano, quelli che possono si capisce, verso spiagge e luoghi ameni in varietà (terme e agriturismi compresi) sia in Italia sia fuori e quasi tutti, chi va e chi resta, a fronte del progressivo maggior silenzio nelle strade cui un cittadino non mai si abitua, si ritrovano e si scoprono più intronati del solito in questo tempo di riti di passaggio: ancora (quasi) il solito, ma non ancora il nuovo che aleggia e quindi all’improvviso (troppo) ecco che il nuovo si abbatte come un laccio sugli ansiosi malcapitati in attesa della pausa e li trascina nel rapido gorgo di vacanze quasi sempre inferiori al desiderio.
Intronati, si diceva, a motivo del secondo anno di forzata coabitazione con il coronavirus e dall’avere, a mascherine innestate, udito e letto tutto e il contrario di tutto: vaccini semplici e composti, green pass (dirlo in italiano fa un altro effetto: che sia una bufala) e spostamenti, code agli hub vaccinali (idem come sopra) e prenotazioni, immunità di gregge o di armenti, dotte spiegazioni scientifiche e previsioni, liti fra coloro che contano e (solite) figure di politici casalinghi ed extra-casalinghi, speranza (nessun riferimento al ministro) e paura (ibidem) o smarrimento, medici e ospedali (cave canem) e -tanto per dare un taglio all’elenco che potrebbe continuare- trasporti pubblici e scuole (i risultati dei test Invalsi, anche a prenderli con le molle, avvertono con burocratico disinteresse di una moltitudine di maturati DaD aventi pesanti deficit cognitivi che si apprestano a spezzare il pane del sapere universitario).
Onde, data la fluida situazione e, in sintesi, la comprensibile stanchezza e fors’anche ripulsa a continuare il giro intorno, come falene al lume, a cose che (ancora) non si sanno, non rimane che scambiare qualche sommesso augurio cercando di non farsi sentire dall’invida aetas per non accelerarne troppo il flusso.
Un tempo c’erano vacanze così intelligenti che i loro adepti non andavano neanche mai in ferie, come la gente normale, ma sempre e solo ‘erano in viaggio’: oggi l’esercizio è un po’ ridimensionato e non è chiaro se a causa di una diffusa minore intelligenza fra le classi elevate e sensibili oppure del particolare che a parte i Paesi a reddito medio-alto nel resto del globo poco più dell’uno per cento è stato vaccinato contro la pestilenza.
Ma due auguri su ogni altro: che le vacanze di oggi non abbiano il pungiglione di quelle di ieri (qualcosa dovrebbero pur avere mostrato anche ai più distratti: confidiamo) e che qualcuno o più s’ingegni a ritirarsi, almeno temporaneamente, dalla diuturna connessione in atto con il mondo spegnendo, almeno per prova, quei miracoli tecnici (praticamente invisibili) per mezzo dei quali la maggioranza che s’incrocia per strada -a piedi, in monopattino, in bici, in moto, in auto, in bus o in treno- parla e pigola e banfa e questiona ad alta voce, da sola fra sé gesticolando, in contorno di smorfie e vaghi richiami a comportamenti inquietanti: diritto alla riservatezza non è solo che i terzi non mettano il naso nelle cose del singolo, ma anche (e talvolta soprattutto) che le loro stanche orecchie siano risparmiate dal dovere condividere aliene beghe e pettegolezzi, progetti di vita e di acquisti al supermercato, istruzioni di lavoro e resoconti aziendali oltre, s’intende, le ripetitive avventure degli epigoni delle baruffe chiozzotte che non mancano mai.
Il tempo, si sa, è sempre più pazzerello a motivo del riscaldamento del clima e dei buchi nell’ozono (curioso che il metano, additato come una delle cause di tali buchi, sia ora incentivato nella transizione alle motorizzazioni alternative: forse di squilibrato non c’è più solo il tempo) e così, in questa incerta estate di luglio che volge, non solo lei, al declino si assiste anche a modifiche di comportamenti umani di un certo rilievo.
In analogia con le tradizioni di abbigliamento femminile che con il caldo si alleggerisce, particolarmente nelle città, in misura balneare, quest’anno è (a parte i giovani che fanno per sé) un brulicare di uomini di ogni età i quali pelosamente (Darwin non deve più fornire alcuna spiegazione) fuoriescono da improbabili pantaloni corti o tipo bermuda e da ancor peggiori canottiere e maglie che irresistibilmente rivalutano il modesto, ma dignitoso indumento blu di operai e magütt dei tempi andati.
Se le femmine (ogni tanto ancora si incontrano anche signore vestite da donna e le si scorgono svettare nella savana) incuranti di età, sovrappeso e cellulite credono fermamente al proprio specchio -parte della rete mondiale di specchi il cui capostipite è verosimilmente quello della matrigna di Biancaneve- e alle arci truccate modelle in mostra fotografica nelle farmacie nel cui nome acquistano e si affidano a sterminati prodotti di bellezza, i maschi non sembrano credere a niente se non alla sciatteria o alla più assoluta assenza di gusto o di educazione.
Vista poi la varietà di tatuaggi esposti farebbero, essi, la gioia del buon Cesare Lombroso il quale allo scopo di istruirsi, appunto, circa i tatuaggi era costretto a frequentare non tanto i tram o la metro quanto piuttosto le patrie galere.
E ancora una nota per terminare gli auguri sorridendo: Milano si è rapidamente parigizzata!
Complice il coronavirus non c’è locale che non abbia allestito il proprio dehors a disposizione degli avventori per consumare all’aperto imitando quindi le tradizionali abitudini della ben più nordica e fredda Ville Lumière e innovando circa quelle autoctone che, da sempre, privilegiavano le proverbiali e note efficienza e frugalità lombarda (e forse anche un po’ di reticenza a mettersi in mostra con piatto e posate sulla pubblica via, a parte la polvere) e relegavano i tavoli all’aperto a qualche trattoria con giardino (per lo più celato: hortus conclusus) o ai bar per il panino di mezzogiorno dedicato agli uffici.
Una differenza nondimeno permane ed è che a Parigi non manca lo spazio mentre a Milano i marciapiedi sono stati pensati come fettucce d’asfalto per procedere (casa, lavoro, scuola, negozi andata e ritorno) e quindi lo spazio per il dehors oltre a trasformare il marciapiede in un percorso a ostacoli spesso sottrae anche una fascia di strada tramite pedane, impalcature e marchingegni in cui si realizza l’italica (e non solo, visti i locali gestiti dagli extra) fantasia.
Diminuiscono forse un po’, dove ci sono, le possibilità di parcheggio, ma rimane pur sempre l’alternativa di sosta in doppia fila, tanto i ghisa da quando sono diventati polizia municipale sono evaporati, e domani è un altro giorno.
Buona vacanza ai nostri lettori e buona continuazione!
Ci ritroviamo (speremm) a settembre come ai bei tempi degli esami di riparazione.