EDITORIALE – Gioco di squadra
Non sono un esperto di gioco del calcio né intendo indossare, per l’occasione, penne non mie.
Dirò anzi che il calcio ha smesso di interessarmi da molto tempo, da quando ho avuto la crescente impressione che fosse sempre meno sport e sempre più business -sia per le società sia per le sue stelle più o meno fuori classe- accompagnato peraltro da un tifo troppo sovente patologico e difficile da comprendere (o sopportare) se non forse a livello psichiatrico.
E i miei giovanili ricordi dello stadio di S. Siro (ante lavori, beninteso), ero interista, riportano a battute del pubblico ancora rivolte ai giocatori in milanese e comunque prive di azioni violente.
Nel corso di un’amichevole fra Inter e nazionale brasiliana, a esempio, il grande Pelè, che quando prendeva la palla era accompagnato da un preoccupato borbottio dei tifosi nostrani (el va, el va …), s’impappinò da solo davanti al portiere oramai rassegnato e sparò dritto sui distinti.
Allora si alzò in piedi un signore tarchiato e rubizzo il quale, facendosi aiutare dalle mani a maggior protezione della voce, ululò: Pelè, va’ a pelà i patat!
Il campione udì e avendo percepito il proprio nome rivolse alla indistinta e rumoreggiante gradinata un candido smagliante sorriso accompagnato da un agitare di braccia prima di trotterellare indietro verso il centro campo sotto uno scroscio di applausi.
Sono però ritornato a pensare al calcio, pro tempore, lunedì sera in occasione della finale di Wembley giocata in condizioni socio- metereologiche tutte britanniche, dai fischi all’inno nazionale alla birra e alla pioggia notturna fino allo sconcertato silenzio davanti al 3-4.
Presto fede a quanto riferiscono gli esperti circa l’assenza, nella nostra formazione, di particolari campionissimi o di primi della classe e rilevo con (almeno per me) sorpresa e piacere l’esistenza e l’azione di una bella squadra che ha dimostrato nei fatti (sul campo) una grande forza mentale e di saperla mantenere in avverse condizioni: andare sotto di una rete ad appena due minuti di gioco, pareggiare a metà del secondo tempo e terminare, dopo la cottura dei tempi supplementari, vincendo ai rigori contro i britannici da tempo persuasi che sarebbero stati loro i primi non è stata impresa da poco, ma grande e meritevole.
Riporta alla mente, le metafore sono sempre in agguato, tutte le volte che le persone importanti proclamano il ‘fare squadra’ come copertura dei loro rispettivi individualismi, di tutte le volte che si dice ‘in campo’ senza muoversi di un millimetro dalle proprie posizioni e, tornando anche al gioco del calcio, di tutte le volte che la squadra non c’è stata o si è slegata per gli isterismi o la prosopopea di qualcuno.
Per ora accontentiamoci del fatto che dopo 53 anni la Nazionale ha vinto gli europei ed è andata a prendersi la coppa proprio nella tana dei leoni e confidiamo, se non è troppo sperarlo, che avvenga perfino un po’ di contagio e che il fare squadra si vada ad attaccare perfino (e anche) a chi di dovere.
Grazie di cuore allora, ragazzi, e non badate a quei cretini i quali per festeggiare abusivamente non trovano di meglio che tirare le bottiglie: al posto vostro avrebbero perso.