EDITORIALE – La popolazione più vecchia d’Europa
Il nostro Paese vanta la popolazione più vecchia d’Europa: il 22,8% del totale contro il 20,3% della media UE e, in particolare, ne conta 14 milioni distribuiti a metà fra ultra 65 e ultra 75.
Fra questi, stando ai dati ISTAT, si stima che circa 4 milioni vivano in solitudine.
Non può quindi suonare sorpresa che governanti pro tempore di vario livello mostrino talvolta di ricordarsi, consigliando loro di starsene rintanati a casa, di questa non sempre fortunata fascia di concittadini come noto non più indispensabili allo sforzo produttivo del Paese fra i quali, oltre a tutto, c’è chi -se può- continua silenziosamente a provvedere in qualche misura ai discendenti in difficoltà con il lavoro (o il non lavoro) che passa loro il convento.
Che poi, ove si ammalino di Covid-19, ci possano lasciare le penne, i vecchi in questione, con maggior facilità dei giovani sembra quasi di poterlo intuire senza neanche bisogno di ricorrere ai luminari della medicina: qualche altro acciacco forse addosso l’hanno già da tempo, gli stagionati, e anche per l’organismo umano vale, mutatis mutandis, l’aurea regoletta che quando il bicchiere è colmo anche una goccia in più trabocca.
Il concetto di riferimento è, appropriatamente, quello della comorbilità o comorbidità (v. e.g. il Charlson Index, variamente modificato nel tempo, che assegna un punteggio a varie patologie la cui sommatoria delinea la prospettiva di sopravvivenza in ottica, non ultima, di analisi costi/benefici -non necessariamente solo economici, ma anche terapeutici- rispetto agli interventi da realizzare o meno sul paziente).
E il Covid-19 non è poi neanche una goccia, ma qualcosa di più.
Ha fatto una certa sensazione che la confinante Svizzera si sia dotata recentemente (da marzo) di un protocollo elaborato dall’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche (ASSM) e dalla Società Svizzera di Medicina Intensiva dal titolo inequivoco: Pandemia Covid-19: triage dei trattamenti di medicina intensiva in caso di scarsità di risorse Indicazioni per l’attuazione del capitolo 9.3 delle direttive dell’ASSM «Provvedimenti di medicina intensiva» (2013).
Il documento consta di otto pagine (non di ventisette come, tanto per dire, il nostro ultimo DPCM del 3 novembre) e prende in esame condizioni difficili allo scopo di aiutare, per quanto possibile, chi opera in prima linea.
Ovviamente, nessuno essendo in grado di operare miracoli, fa i conti con la realtà: rapidità di diffusione del coronavirus (SARS-CoV-2), situazione straordinaria di grande afflusso di pazienti negli ospedali e quindi, se le risorse a disposizione non sono sufficienti, necessità di prendere decisioni di razionamento.
E a scopo unicamente culturale si è ritenuto interessante riportare il documento nella rubrica L’approfondimento di questo numero.
L’età del paziente (non proprio quanto riportò la stampa), premesso che quale criterio di per sé confligge con il divieto di discriminazione poiché non può che attribuire agli anziani un valore inferiore rispetto ai giovani, viene considerata indirettamente nell’ambito del criterio principale «prognosi a breve termine» (vale a dire: la precedenza viene data ai pazienti che possono trarre il massimo beneficio dal ricovero in terapia intensiva), in quanto gli anziani presentano più frequentemente situazioni di comorbidità.
Come sempre scrivere è più difficile e impegnativo che parlare, poiché più difficilmente ci si può, nel caso, sfilare invocando di essere stati fraintesi o trasferendo la responsabilità ai propri collaboratori che hanno sbagliato (può succedere), ma sicuramente un po’ più serio.
In ogni modo non sembra, allo stato, che per gli ultra siano previste restrizioni aggiuntive e la canizza si è spostata sui colori da attribuire alle Regioni.
Cade così (o meglio rimane temporaneamente sospesa) almeno una fra le tante preoccupazioni espresse a proposito dei trattamenti riservati ai vecchi: il rischio dell’eugenetica.
Anche se (ma forse qualcuno prima o poi ci arriverà) incrociare e. g. i vecchi con i batraci per renderli anfibi consentirebbe di spostarli a vivere negli stagni e lungo i corsi d’acqua in modo, da un lato, di levarseli di torno ripopolando le rive e, dall’altro, di alleggerire non poco il carico del sistema sanitario e delle RSA.