EDITORIALE – Come mai gli umani sono diventati gorilla?
Ho il privilegio di frequentare un piccolo di quattro anni e siamo stati a una entusiasmante visita al Museo di Scienze Naturali: dopo aver osservato una gigantografia a tutta parete la quale, in sette ritratti consecutivi, evolve dal primitivo scimmione a due bei giovani d’oggi, il bimbo, già esperto di domande non semplici, chiede: Nonno, come mai gli umani sono diventati gorilla?
Ora, a parte che personalmente opino da tempo, a livello filosofico e in forza dei comportamenti (etica) di una discreta parte della popolazione, che ciò non sia per niente infondato, la base interessante della domanda sta nella mancanza di pre-giudizi che consente al piccolo, come nella specie, di leggere la gigantografia sia in un senso sia nell’altro: cosa che a un adulto non viene in mente a motivo, appunto, di un pre-giudizio (conoscenza dell’evoluzione).
Nel rispetto quindi, è evidente, della necessità di connessione delle conoscenze emerge nondimeno, in contemporanea, la necessità d’attenzione che si dovrebbe maggiormente riservare al metodo o modalità di ragionare, processo di delicata complessità in cui, viceversa, il ricorso o la presenza (voluta o no) del pre-giudizio risulta spesso critico per il risultato.
La memoria, allora, risale a quello sguardo dall’alto che è non facile esercizio spirituale, noto ai filosofi fin dall’antichità, consistente nella visione o rappresentazione delle cose del mondo da un punto elevato cui si giunge come sollevandosi da terra: un volo dello spirito.
Un percorso che sfronda la mente e la visuale dai condizionamenti usuali e consente un’osservazione libera e maggiormente obiettiva degli scenari sui quali si muove, al pari di uno stuolo d’insetti, la maggioranza degli uomini e, in particolare, coloro che si credono o che sono ritenuti potenti per quel limitato o limitatissimo spazio temporale che è loro concesso, peraltro per lo più a loro insaputa, dall’effimero e dal contingente.
Vista dall’alto, infatti, anche la situazione più critica svela inequivocabilmente la debolezza, la piccineria, la bassezza, la vergogna, il malaffare e il ridicolo in cui vaga la maggior parte dei grandi.
Non per niente questo (particolare) esercizio spirituale è stato, ed è, appannaggio di filosofi e di artisti.
Ma a ben osservare e fatte anche le debite proporzioni riconoscendone l’evidente difficoltà, esso non dovrebbe comunque mancare, almeno come strumento, al bagaglio culturale e metodologico dell’uomo politico o, a maggior ragione ancora, dello statista il quale è, allo stato, reperibile con facilità analoga a quella dell’uomo cercato da Diogene il cane.
Ci sono i barbari e difettano, se mai esistano, gli ottimati (situazione ben nota nel passato, ma sovente a prezzo di scomparse) e l’esercizio è complesso poiché in conflitto con il (naturale) istinto dello homo homini lupus (fra i vari: Plauto, Erasmo, Hobbes) o quantomeno del ringhiare comunque, ma, appunto perché esercizio e quindi, come tale, disponibile e acquisibile da parte di un’intelligenza consapevole, consigliabile a chi vorrà cimentarsi per traghettare, se riesce, l’odierna fase d’inselvatichimento a una fase di reale progresso la quale, con i mezzi anche tecnici disponibili oggi, sarebbe ben più efficace e duratura di pur positive esperienze del passato.