EDITORIALE: società civile e società politica
Anni or sono, negli ultimi anni della prima Repubblica, ma prima ancora di Mani Pulite, non c’era convegno od evento di una qualche rilevanza, specialmente nel perimetro di Confindustria, ove qualche personaggio di rilievo non tornasse regolarmente a marcare la distinzione quasi ontologica e la conseguente differenza fra la società civile e quella politica (o dei partiti), ove alla prima si accreditavano virtù ed alla seconda vizi.
Come sempre le classificazioni, in particolare così generali, celano insidie, ma anche in questo abbastanza comune sentire, diffuso non solo in ambito imprenditoriale, finirono per liquefarsi i vecchi partiti ad opera, principalmente, del gruppo della Procura milanese la cui azione fu in genere accolta positivamente. Né poteva, in quei tempi e con quello che progressivamente emergeva, essere altrimenti.
Anche l’ascesa al trono governativo da parte dell’imprenditoria più dinamica ed efficiente, sul carro della quale erano prestamente saliti in molti fra ex e nuovi volonterosi collaboratori disposti, come è logico, a più stimolanti esperienze fu salutata come una nuova era, tanto da qualificarla seconda Repubblica.
Finalmente la società civile, permeando quella politica, aveva ora la possibilità di realizzare quelle riforme e ricostruzioni che la corruzione e rapacità della società politica avevano per tanti anni, pro domo sua, reso inagibili. Non è proprio il caso di entrare nel merito del recente ventennio, che lasciamo agli esperti, ma di notare appena come in ogni caso, a fronte delle evidenze, ben presto cessasse la nota e gracidante litania.
Ma la tradizionale linea di confine ideologico fra la società politica e l’altro (comunque si pensi di denominare questi due insiemi -passando anche per l’anti-politica che è una bella invenzione, sebbene priva di senso-) non scompare perché costituisce, in realtà, un potente placebo ed infatti ritorna pressoché invariata.
Ora c’è chi ricorda la distinzione, sostanzialmente analoga, fra paese legale e paese reale.
Il problema non è però dottrinale, ma di merito: se il buon cittadino, una volta eletto o nominato da qualche parte, diviene un reprobo (corruttibile, avido, egoista, interessato più ai suoi interessi che al servizio, tanto da scegliere la cosa pubblica -piccola o grande che sia- come un mestiere o una poltrona sulla quale preferibilmente incollarsi, disposto a tutto pur di tenere il potere etc) ha senso continuare nel tentativo di assolvere il paese reale o la società civile o non avrebbe piuttosto maggior valore interrogarsi (ed agire) sulle possibili o probabili debolezze etiche, morali e civiche dei cittadini in genere i quali fino a quando rimangono tali, quisque de populo, vedono i deficit e (giustamente) protestano, ma quando passano il Rubicone in troppi si adeguano al peggio?
Non per nulla, forse, ad ogni elezione si presentano plètore di candidati pronti a lanciarsi nell’agone pur privi di qualsiasi competenza: non sarà che è considerata, l’elezione, un investimento tanto potenzialmente lucrosa se si è disposti a concorrere a costo d’indebitarsi o di contrarre pericolose relazioni?
La linea di demarcazione, così consolante a livello sociologico, forse non c’è.
D’altra parte basta salire su un mezzo pubblico ed osservare come la maggioranza si nasconda dietro al baracchino elettronico, orecchie turate dai provvidenziali auricolari, per non rischiare di dover cedere il proprio posto ad un anziano od osservare come tanti vivono la loro città (biciclette contro mano, auto in duplice fila, pedoni insensibili ai semafori) o partecipano ad un’assemblea di condominio (ove per legge dovrebbe essere obbligatorio almeno uno psichiatra) e chi più ne ha, più ne metta: se una siffatta tipologia umana diventasse consigliere o assessore o amministratore o presidente o deputato (succede anche questo), cosa farebbe e come si comporterebbe nella nuova carica?
È forse sufficiente sedersi sul velluto per acquisire educazione, spirito di servizio, condizioni etiche?