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L’EDITORIALE – 8 Settembre

Ci scrive un lettore amico a proposito dell’8 settembre, ricordato nel precedente editoriale, e osserva che nella attuale società un grande problema, culturale e non solo, è costituito dalla generalizzata ignoranza della storia, specialmente fra i giovani.

Ha ragione ed è argomento di molto rilievo sia per la cultura civica sia per la politica in genere del Paese.

L’importanza di conoscere la storia ha lunghe radici che, per noi, risalgono a Cicerone il quale in una sua opera (il De Oratore) la presenta come ‘maestra di vita’ oltre che ‘testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, nunzia della vetustà’ conferendole una capacità da prendere, a dire il vero, con una certa prudenza.
E a sfrondo dell’iperboli tipiche, non per nulla, dell’oratore quale operante in antico.

Diciamo che già basterebbe, la conoscenza della storia, per una funzione potenzialmente istruttiva non dissimile da quella indicata nel detto ‘sbagliando s’impara’ applicato non solo alla mera contingenza, ma a una fascia temporale più estesa.

Goethe disse che non attingere a tremila anni di storia equivale a vivere alla giornata.

Ora, a parte la non conoscenza vera e propria dei fatti trascorsi, c’è da osservare come, quando anche si abbia presente la storia, una insidia particolarmente pericolosa coincida con la attualizzazione di pur medesime circostanze di fatto alle quali, in virtù del tempo trascorso e dei progressi nel frattempo intervenuti, si riserva differente interpretazione (e quindi comportamento).
Un esempio banale: la débâcle di Napoleone nella sua invasione della Russia (immensità degli spazi e generale Inverno) era nota agli strateghi tedeschi della invasione nazista i quali però, a differenza dei Francesi, avevano a disposizione tecnologie che li inducevano a non farsi ammaestrare (condizionare) dal passato.

Nondimeno, mutatis mutandis, sia spazi sia gelo hanno attivamente cooperato anche alla seconda disfatta.

E ne sanno qualcosa anche i nostri alpini e fanti mandati a piedi in Russia dagli strateghi dell’Urbe.

Il richiamo a Napoleone ne attira, a proposito dell’elogio della storia, un altro secoli dopo il romano scrittore: ai primi dell’Ottocento, nel gennaio 1809, il Foscolo appena chiamato dalla Università di Pavia alla cattedra di eloquenza, già di Vincenzo Monti, pronuncia l’orazione inaugurale ‘Dell’origine e dell’ufficio della letteratura’ da cui emerge il pressante invito O Italiani, io vi esorto alle storie (e qui Cicerone era, a confronto, retoricamente sobrio) perché niun popolo più di voi può mostrare né più calamità da compiangere, né più errori da evitare, né più virtù che vi facciano rispettare, né più grandi anime degne […].

Napoleone, dunque, informato da qualche solerte prefetto del trillo di colui che già gli aveva duramente contestato nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis la fine di Venezia ceduta all’Austria in quel di Campoformio e il possesso alla Francia delle isole veneziane del Levante, Giacinto, Corfù, Cefalonia etc (Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia. Il mio nome è nella lista di proscrizione, lo so: ma vuoi tu ch’io per salvarmi da chi m’opprime mi commetta a chi mi ha tradito?) ecco che prestamente mette a tacere il grillo parlante non certo perseguitandolo di persona (come agiscono ora i tiranni), ma abolendogli la cattedra. Tornando a noi, il nostro lettore chiama in causa l’italica scuola portando a esempio le giovani figlie laureate in scienze politiche, ma scarse se non digiune di storia che non sia, se e in quanto, quella antica.

Ha sempre ragione, naturalmente, poiché insegnare trattando di cose appassite è neutro, mentre parlare ai giovani del Novecento è impegnativo e insidioso dato che la Repubblica non ha, sfortunatamente, elaborato il lutto se non in piccola parte.

E quando va bene, ne ha riposto molto e troppo nel cassetto e chi vivrà, vedrà.

Ovviamente coloro che vedono sono progressivamente sempre meno, come anni or sono i Cavalieri di Vittorio Veneto.

E i giovani di oggi, come gli ancora più giovani del poi, a breve non sentiranno neanche più parlare, a esempio, dell’8 settembre del 1943 rimanendo la tragedia di una gente e di una generazione confinata in qualche libro, grande o piccolo, ma non esattamente best seller.

Il padre di chi scrive, ufficiale alpino, ha lasciato scritto in brevi memorie di vita (e come lui  tanti altri, al tempo in divisa e non, testimoni senza nome e senza voce) che quando i reparti in ritirata dalla Francia, nella specie da Nizza, giunsero (camminando giorno e notte) a Borgo San Dalmazzo avendo abbandonato tutto il superfluo nella salita, ma non armi e munizioni e udirono il generale Vercellino comunicare gridando, per farsi capire lontano, dal tetto dell’automobile che […] la 4° Armata è smobilitata, distruggete le armi, mettetevi in abito civile e tornate alle vostre case. Buona fortuna e che Dio ci assista non trattennero il pianto.

Non erano guerrafondai né professionisti delle armi né mercenari né avevano voluto la guerra, ma cittadini, contadini e montanari che avevano sacrificato al dovere anni di vita e morti e feriti e congelati e dispersi per non parlare delle famiglie, delle case, del lavoro.

Ricordo sempre con quale tristezza mio padre raccontava di quando, dall’Alpe Veglia, con lo sconforto e la rabbia nel cuore sparavano inutilmente con le contraeree ai bombardieri che andavano a colpire le città e pur già da 2000 metri di altezza la loro gittata non arrivava alla quota di crociera del nemico, indisturbata anche per l’assenza della nostra caccia i cui velivoli erano probabilmente ancora là dove erano orgogliosamente stati passati in rivista dai grandi capi.

Ma erano i piccoli, come sempre, a essere abbandonati al loro destino dalla viltà di coloro che, ai vertici politico-militari, erano stati capaci di gridare proclami, ma non di governare.

E il modo ancora offende.

Quello che seguì è noto a tutti, a prescindere dalle ideologie, e c’è ancora da chiedersi come possa un sistema politico complesso e delicato di nome democrazia, ove l’unitarietà dell’orientamento politico e la sua dinamica sono generati da pesi e contrappesi architettati appositamente per limitare e contenere il rischio, sempre presente nelle istituzioni politiche umane, della tirannide, essere sostenuto (ora e ancor più nel futuro) dai voti di un popolo parte del quale non sa neanche da dove proviene e da chi.

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